“In due senza perdersi” di Giovanna Brunitto, pubblicata sul n. 19 di Confidenze, è la storia vera più apprezzata sulla pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog
La bellezza salverà il mondo? Non so se sia vero, ma per me ha funzionato. La mia passione per l’arte ha stemperato il dolore per un matrimonio in cui avevo annullato me stessa e seguendo le tracce di Leonardo da Vinci mi sono sentita rinascere. Con Oliver
Storia vera di Matilde O. raccolta da Giovanna Brunitto
L’inverno di quattro anni fa è stato lunghissimo. Mesi e mesi di freddo, neve e pioggia continua. Non ho ricordi di un solo giorno di sole. È incredibile come la memoria selezioni i ricordi e li rimetta in un ordine tutto suo. Per dire, so con precisione che ora era quando Giulio, il mio ex marito, ha detto che voleva andarsene da casa. Potrei descrivere con esattezza quanto tempo ha impiegato a preparare le sue cose e quando ha afferrato la sua ultima valigia e, senza voltarsi indietro, si è chiuso la porta alle spalle lasciandomi silenziosa e incredula. Conservo tutto in un cassetto della memoria, che ho imparato ad aprire il meno possibile. Probabilmente anche le belle giornate sono rimaste nascoste ben bene in fondo perché, per un anno intero, non ricordo di aver visto il sole.
Poi una mattina mi sono alzata e il fatto di essere sola in casa mi è sembrato meno grave. Un peso sopportabile. Ho pensato che con impegno ce la potevo fare a non piangere nemmeno una volta nella giornata. Sempre quella mattina sono uscita per andare a lavorare, ho alzato la testa e dopo tanto tempo ho fissato il cielo. Era azzurro. In quel momento, ho sentito con chiarezza dentro di me che potevo andare avanti anche senza Giulio. L’inverno durato quasi un anno stava per lasciare il posto a una timidissima primavera. E così è iniziata la mia lenta risalita.
Senza fretta ho ripreso a vivere. Le raccomandazioni della mia famiglia e della mia migliore amica di cercare un altro compagno le ho seguite solo in parte. Non sono il tipo che, finita una storia, ne inizia subito un’altra. Il “chiodo scaccia chiodo” non fa per me. Capivo le preoccupazioni di chi mi vedeva sempre sola e con scarsissima vita sociale, ma a quasi 40 anni non volevo scendere a compromessi. Con Giulio ci eravamo sposati giovani. Lo amavo tantissimo e di buon grado avevo accettato le sue abitudini, i suoi amici, la sua routine. Non che non avessi interessi miei, ma accontentare Giulio in tutto ciò che era possibile era il mio modo di amarlo, anche se questo significava annullare le mie esigenze. Poi lui aveva deciso di andarsene e io non sapevo più che fare, non sapevo neanche più cosa esattamente volevo. Il mio amore aveva preso il sopravvento sul resto e adesso che era finito non mi restava molto. Riprendere a camminare da sola era stata dura, non potevo permettermi il lusso di compiere ancora lo stesso errore. Dopo il cielo azzurro, ho iniziato a scorgere altri segnali di ripresa. Un gatto che sornione mi faceva l’occhiolino mentre passavo vicino al muretto dov’era appollaiato. Un uomo in metro che mi sbirciava interessato. Due ragazzi che si baciavano sul ponte del naviglio incuranti dei passanti. Sì, potevo andare avanti anch’io e con questa consapevolezza ne era arrivata anche un’altra: d’ora in avanti mi sarei voluta più bene.
Con la primavera, ritrovai la Milano che più mi piaceva e che negli anni del matrimonio avevo dimenticato. I negozi e le vetrine da ammirare, le passeggiate nel nuovo quartiere Isola e, più di tutto, i musei e le mostre. Sono appassionata d’arte sin da piccola e i miei studi classici hanno rafforzato la mia passione, ma Giulio si annoiava a girare per gallerie polverose e anticaglie varie, così diceva, così mio malgrado avevo abbandonato i miei “viaggi nel tempo” attraverso quadri e sculture. Decisi che era arrivato il tempo di recuperare e prenotai tutto quanto era possibile vedere in città. Avrei iniziato da Milano e poi, preso coraggio, avrei allargato il mio raggio d’azione ad altre città. D’altronde siamo in Italia e andare per musei nel nostro Paese è quanto di più facile e naturale ci sia.
La prima mostra che ho visto a Palazzo Reale mi ha restituita a me stessa. Attraverso i dipinti di Giotto ho ripreso a vivere appieno. Quando sono uscita ero un’altra. Se dovessi spiegare a parole, era come se mi fosse penetrata nel petto una sensazione di meraviglia. Davanti a tanta bellezza, il dolore che portavo dentro si andava sciogliendo, attraverso le figure dipinte con maestria che trovavano nello spazio della tela una collocazione nuova, sperimentata per la prima volta dal pittore, così io trovavo il mio posto. Era lì che volevo stare, era quella la bellezza che volevo ammirare, era così che volevo sentirmi. Non volevo più scendere a compromessi con nessuno, non ero più disposta a rinunciare a me stessa. Avevo impiegato anni a capirlo, ma finalmente ne avevo consapevolezza.
Così iniziai i miei tour dei fine settimana. A ogni mostra, a ogni rassegna, a ogni visita in qualche museo, tornavo a casa arricchita. Ogni volta mi sentivo sempre più a casa nella mia nuova pelle. Ero finalmente io.
Poi è arrivato quel giovedì. Circa sei mesi prima avevo prenotato una visita al Cenacolo di Leonardo. Al fine di preservare questa meravigliosa opera, gli ingressi per vedere l’ultima cena più famosa del mondo sono pochi e la prenotazione è obbligatoria, perciò mi tenevo ben caro il mio biglietto. Ero fuori in attesa che arrivasse il mio turno, quando ho notato un uomo con aria affranta appoggiato a una colonna della chiesa lì vicino. Piazza Santa Maria delle Grazie, che prende il nome dall’omonima basilica, era piena di gente e non saprei dire perché mi era caduto lo sguardo proprio su di lui, forse quell’aria così sconsolata aveva attirato la mia attenzione. Continuavo a scrutarlo e cercavo di capire perché se ne stesse lì da solo, avvilito. Mi incuriosiva. A un certo punto, anche lui mi ha fissato. Non so se vi è mai capitato, ma ho avuto la certezza di conoscerlo. Non sapevo dove ci fossimo incontrati, ma chiaramente il suo viso mi era familiare. Io, che mi definisco riflessiva e incline alla timidezza, in quel momento, non ci ho pensato due volte, mi sono avvicinata e gli ho chiesto se ci conoscessimo. Lui mi ha guardato e mi ha risposto in francese che non aveva capito. A questo punto, la vecchia me avrebbe fatto due passi indietro scusandosi e se ne sarebbe andata, invece la nuova Matilde, nata quella mattina in Piazza Santa Maria delle Grazie, ha rispolverato il francese del liceo e ha conversato con una buona dose di sfrontatezza. Tra vocaboli che non ricordavo e inviti a ripetere lentamente da parte di entrambi, ho scoperto che Olivier era arrivato a Milano proprio per seguire le tracce del più grande genio del Rinascimento italiano ma che non sarebbe potuto entrare a vedere il Cenacolo perché non c’erano biglietti disponibili. Allora ho deciso di cedergli il mio ingresso. Io a Milano prima o poi sarei riuscita a visitare il capolavoro di Leonardo, lui probabilmente non avrebbe avuto questa possibilità. Olivier ha preso il biglietto e mi ha abbracciato, ringraziandomi circa cento volte. Sono arrossita come una scolaretta e ho pensato che era bello vederlo ridere. Allo stesso tempo ho pensato di essere diventata completamente stupida, ma donargli il mio ingresso mi era venuto spontaneo. Adesso ero libera di poterlo fare, non avevo più qualcuno che sentenziasse alle mie spalle che ero la solita ingenua sognatrice, usando un tono però che chiaramente faceva diventare quella frase dispregiativa. Olivier ha notato il velo che mi aveva coperto il sorriso e mi ha chiesto se avessi qualcosa che non andava. Automaticamente gli ho risposto di no. E penso che mi capirete, perché chi è che risponde spiegando cosa prova quando qualcuno, specie una persona conosciuta da un quarto d’ora, glielo chiede?
Anche se avevo la netta sensazione che mi avrebbe compreso, ho scosso il capo negando, ma Olivier non ha lasciato cadere il discorso, come avrebbe fatto chiunque altro, lui ha insistito. Ero disorientata, avevo la sensazione che gli interessasse davvero sapere cosa avessi, ma non avevo le parole per dirlo. E non mi riferisco al francese. Avevo voglia di raccontargli del mio matrimonio, avevo voglia di urlare la mia rabbia verso Giulio per avermi tarpato le ali per 15 anni, avevo voglia di svegliarmi il giorno dopo e avere accanto un uomo come lui che, con interesse reale, mi chiedesse di me.
Ma come facevo? Allora ho fatto la cosa che mi riesce meglio quando sono in imbarazzo, ho cambiato discorso. Gli ho detto che non avrei mai accettato il pagamento del biglietto e che, se mai ci fossimo incontrati ancora, mi avrebbe offerto un bel pranzo. Poi l’ho salutato perché era arrivato il momento di entrare nel refettorio del convento adiacente la chiesa. Mi era sembrato dispiaciuto. Sono andata via e sono rientrata in ufficio. Una collega mi ha detto che il Cenacolo mi aveva fatto bene perché ero tornata dalla visita radiosa come non mai. Era vero, ho mantenuto un sorriso stampato sul viso per tanto tempo. L’incontro con Olivier, seppure così breve e purtroppo senza futuro, mi aveva ricordato che volendo potevo anche essere seducente. Poi è arrivata domenica. Erano trascorsi tre giorni ed ero ancora avvolta da quella sensazione di contentezza, perciò per la visita che avevo in programma avevo scelto di vestirmi diversamente dal solito. Avevo scovato nel fondo dell’armadio un completo fiorito che mi dava un’aria sbarazzina e, cantando ad alta voce in macchina, ho raggiunto Melzo, un paese in provincia di Milano. Lì c’è la chiesa di Sant’Andrea dove solo da qualche anno sono stati portati alla luce affreschi di scuola leonardesca e, anche se non attribuite ufficialmente, sono emerse incisioni riconducibili per modernità e bellezza alla mano del genio del Rinascimento. Rappresentano una donna di spalle con un bimbo in braccio e uno per mano, accompagnati da un servo moro. Dalle immagini che avevo visto stampate, erano veramente uno spettacolo che meritavano una visita. Forse non era stato Leonardo, ma di chiunque fossero quelle incisioni erano state eseguite da una mano straordinaria. Parcheggiata l’auto, mi sono seduta sugli scalini in attesa dell’orario di apertura. Davanti a me una piazzetta deliziosa sulla quale il sole del mattino modellava ombre lunghe e sinuose. Mentre ammiravo i giochi di luce, l’ho visto arrivare da una vietta. Era lui, senza dubbio. Olivier mi veniva incontro. Penso che lo stupore che ho provato era solo secondo a quello che aveva lui dipinto sul viso. Poi un sorriderci l’un l’altra. Ci siamo salutati e le parole hanno preso il sopravvento. Anche lui stava seguendo le tracce lasciate in Lombardia da Leonardo. Anche lui voleva vedere quelle incisioni la cui fama era arrivata Oltralpe. Anche lui mi aveva pensato. Anche lui aveva creduto che non ci saremmo più incontrati. Ecco, io e lui lì su quella piazzetta, ci eravamo ritrovati, era incredibile. Poi è arrivato il nostro accompagnatore. Siamo entrati nella chiesa e, dovevamo emettere proprio una luce speciale, perché Angelo, che ci faceva da guida, ci ha accolto come una consolidata coppia di turisti stranieri. Ci ha mostrato le straordinarie incisioni, ci ha raccontato la sua versione sul soggiorno leonardesco a Melzo e un’intricata e affascinante storia di amanti e di teschi ritrovati. Noi lo ascoltavamo, ci guardavamo e abbiamo tenuto il gioco.
Era tutto magico e non volevo che finisse. Non volevo. Siamo usciti dalla chiesetta e ci siamo ritrovati mano nella mano. Io e Olivier non sapevamo come dividerci. Sempre Angelo ci ha consigliato una trattoria lì vicino che preparava specialità locali. E noi ci siamo andati, così mano nella mano, e abbiamo mangiato, così mano nella mano. Olivier rideva e diceva che avevo fatto apposta a incontrarlo per farmi offrire un pranzo e io ridevo a mia volta perché mai prima di allora ero stata preveggente. Quella domenica è finita in un attimo, anche se ci sono giornate che non dovrebbero terminare così in fretta. Abbiamo cercato di prolungarla il più possibile ma l’alba del lunedì ci ha sorpresi lo stesso. Il treno di Olivier era previsto per il pomeriggio, lo attendeva un lungo viaggio per rientrare a Tours, nella Francia rurale. Quando il treno si è mosso sulla banchina, mi si è stretta la bocca dello stomaco. La paura ha preso il sopravvento: Olivier non sarebbe tornato.
Sono rientrata a casa disperata. In poche ore, la Matilde con scarsa fiducia in se stessa è riemersa e ha sfoderato tutto il suo bagaglio di insicurezze. Mi pareva improbabile che le promesse fatte davanti a un piatto di busecca alla milanese potessero essere vere. Poteva Olivier, un professore universitario di storia dell’arte rinascimentale, interessarsi a me? Avrebbe mai lasciato la sua città per venire a stare a Milano? Seduta sul divano, davanti alla tele accesa senza voce, mi sembrava impossibile. Era stato tutto un sogno, bellissimo, ma era finito. Poi anche quelle ore trascorse tra mille dubbi sono passate ed è arrivata la prima di mille telefonate di Olivier. Forse il sogno poteva continuare. Ci siamo sentiti più volte al giorno per mesi, fino a che lui non ha ottenuto una cattedra di un anno per insegnare presso la scuola francese di Milano. Poi c’è stato un rinnovo e un altro ancora. Siamo andati a vivere insieme, ci è sembrato naturale ed è stato tutto semplice. A me che avevo affrontato anni di difficoltà nel dire la mia, nel far valere un mio pensiero, sembrava (e sembra) di vivere su un altro pianeta per la semplicità con la quale riesco a essere me stessa con Olivier. E forse l’amore è tutto qua, amare l’altra persona e restare in coppia, senza perdere se stessi. Sicuramente ci saranno definizioni migliori, ma a noi basta questa.
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