Quanti di voi ricordano con esattezza cosa facevano il 9 maggio del 1978? Il giorno in cui fu trovato il cadavere dell’onorevole. Aldo Moro? Sono sicura che per tante generazioni è un ricordo indelebile.
Quando accade qualcosa di speciale, nel bene e nel male, la nostra mente fissa ogni particolare, ogni minuto di giornate che sembrano eterne, e per anni riviviamo nella memoria quegli attimi, ci ricordiamo particolari che altrimenti andrebbero persi nel flusso del tempo, cancellati dalle mille giornate sempre uguali.
E io, come tanti immagino, di quel 9 maggio ricordo tutto, come di quei 55 giorni di prigionia vissuti con il fiato sospeso e la certezza che niente sarebbe stato più come prima.
Ero in quarta ginnasio nel 1978, l’onda lunga della contestazione era ancora ben tangibile allora, in un clima teso e spesso esasperato, proprio come quel 16 marzo, il giorno del rapimento dell’onorevole Moro, quando alcuni leader del movimento studentesco della mia scuola, uno dei licei classici più centrali della città, fecero irruzione in classe durante la lezione per annunciare la notizia del rapimento: la prof di italiano sbiancò in volto, ma ebbe la prontezza di sibilare un “fuori di qua, subito” che rimase impresso a tutti noi.
Durante i 55 del rapimento noi vivemmo con lei una sorta di via crucis; il programma venne completamente stravolto a favore di una minuziosa analisi dei quotidiani che ogni giorno riportavano dettagli, spiragli di speranza, appelli di ogni genere sul destino dell’onorevole Moro.
Forse era un modo per esorcizzare la notizia o per far calare noi ragazzini di quattordici anni in una realtà che altrimenti li avrebbe solo sfiorati, fatta di sguardi distratti alle notizie dei telegiornali. Invece particolari del sequestro come la sabbia ritrovata nei pantaloni, il finto depistaggio del Lago di Duchessa, divennero i nostri compagni di studi, così come impietosamente passò alla storia la Renault rosso aragosta dove fu trovato il corpo dello statista, divenuta per tutti “la macchina di Aldo Moro”.
Che cosa ricordo di quel periodo? Il divieto assoluto dei genitori a uscire senza documenti: erano state promulgate da poco le leggi speciali antiterrorismo che prevedevano appunto il fermo di 48 ore in Questura per chiunque fosse trovato in giro senza documenti. E poi l’atmosfera di concitazione, di allarme generale, quella solidarietà umana che si crea nella condivisione di eventi eccezionali e che si stemperò nell’angoscia di quel 9 maggio di quarant’anni fa. Ricordo l’atmosfera plumbea di quel giorno, l’aria, che come si suol dire, si tagliava a fette. Milano attonita si chiuse attorno alla notizia che nessuno avrebbe mai voluto ascoltare e sulla città calò il silenzio. Un silenzio spettrale, irreale. Mentre percorrevo la solita strada, insolitamente deserta, per andare a studiare da una mia amica, dalle case giungevano gli echi delle notizie del telegiornale, i negozi abbassavano le saracinesche per aderire alla manifestazione spontanea che si sarebbe tenuta in piazza Duomo dove la gente comune si ritrovò per condividere lo sgomento, il dolore, un lutto che era una sconfitta per l’Italia tutta intera.
Il delitto Moro segnò un’epoca e ne sancì anche la conclusione: quella degli Anni di piombo, fatta di attentati agli uomini delle forze dell’ordine, a magistrati, e dirigenti di azienda.
Oggi si celebra la Giornata delle vittime del terrorismo e delle stragi, istituita dalla Repubblica Italiana nel 2007 proprio in ricordo dello statista della Democrazia Cristiana. A quarant’anni dai fatti accaduti, ci sono state trasmissioni televisive, ricostruzioni e dibattiti, qualcuno ha fatto giustamente notare come spesso i brigatisti superstiti, autori di quella strage, siano stati trattati dai media quasi con ossequio e deferenza.
Noi abbiamo pensato di ricordare quegli anni nel servizio a cura di Santi Urso (Aldo Moro: cronaca dell’agguato) pubblicato sul numero scorso (il 19) e nelle storie vere di questa settimana (Anni di Piombo, raccolta da Mariella Loi) con la testimonianza di una figlia rimasta orfana del padre, ucciso dalla Brigate Rosse.
È una testimonianza anonima e abbiamo rispettato il volere della ragazza di non svelare l’identità del padre e la sua, perché alla fine il dolore non ha nomi né volti e riguarda tutti noi.
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