La storia più votata della settimana è “L’uomo ideale” di Mariella Loi, pubblicata sul n. 50 di Confidenze. Una lettrice, Ilaria, scrive sulla pagina Facebook: “Mi ha colpito al cuore. Mi è piaciuta molto la conclusione della vicenda: il protagonista che fa pace con il suo passato, l’ empatia nei confronti di suo padre e il luogo angusto in cui era stato rinchiuso”. Ve la riproponiamo sul blog
Storia vera di Alberto P. raccolta da Mariella Loi
Per mia madre, mio padre rappresentava l’uomo ideale. Bello, ricco, di buone maniere, agli occhi di una modesta ragazza di provincia, che aveva cominciato a lavorare a quindici anni, incarnava perfettamente il principe azzurro. Essere scelta da lui le procurò l’approvazione della sua famiglia, che fino ad allora non l’aveva mai considerata, e nel contempo le gettò addosso l’invidia delle sue coetanee che si erano viste sottrarre il buon partito. Mio padre corteggiò mia madre in modo plateale, le mandava mazzi di fiori, abiti di sartoria che sceglieva per lei, le regalò un anello di fidanzamento che valeva una fortuna. Fu facile per lei innamorarsene e decidere di sposarlo. Inizialmente i miei nonni paterni ostacolarono quell’unione ma poi davanti all’ostinazione di loro figlio, organizzarono un matrimonio sontuoso, durante il quale, i pochi parenti di mia madre ammessi alla cerimonia, furono tenuti a margine della festa. E quella, a pensarci dopo, fu la prima nota stonata di questa vicenda ma allora nessuno vi dette il giusto peso, a cominciare dagli esclusi. Io sono nato a distanza di cinque anni dal loro matrimonio perché mia madre aveva qualche problema di salute e la sua difficoltà a concepire fu il primo elemento su cui s’infranse l’adorazione di mio padre. Diventò aggressivo nei suoi confronti, accusandola di averlo ingannato circa il suo reale stato di salute, e una volta, al culmine di una sfuriata, minacciò di lasciarla perché sterile. Mia madre si sentiva in colpa nei suoi confronti, aveva ricevuto da lui attenzioni e benessere e lei per contro non riusciva a dargli un figlio. Le sue origini umili, in quel contesto, la facevano sentire in difetto e per molto tempo le impedirono di capire che il principe azzurro, semmai c’era stato, se n’era andato da un pezzo. Mio padre era un uomo molto in vista, più per diritto di nascita che per meriti personali e questo aveva insinuato in lui la convinzione che nella vita tutto gli fosse dovuto. Non ricordo da parte sua grandi attenzioni nei miei confronti, da bambino. Nel tempo mi sono fatto l’idea che un figlio gli servisse per rinforzare la sua immagine sociale, così la paternità che tardava a realizzarsi costituiva ai suoi occhi un’imperfezione intollerabile. Io nacqui in un contesto familiare già compromesso e due anni dopo di me, fu la volta di mia sorella. Nel frattempo, c’erano stati altri episodi rivelatori, la violenza verbale si era trasformata in violenza fisica, e ogni scusa era buona per infierire su sua moglie. Sono a conoscenza di questi fatti, non perché mi ricordi ma perché mi sono stati raccontati.
Rammento solo qualche piccolo dettaglio, come quella volta che mia madre aveva un occhio nero e raccontò a tutti che si era fatta male cadendo dalle scale, ma a casa nostra di scale non ce n’erano.
Mia madre è morta il giorno del mio sesto compleanno e a ucciderla è stato mio padre, l’uomo perfetto, il principe azzurro di una volta, che lei non aveva mai voluto denunciare. Non lo aveva fatto per paura, credo, ma anche per la vergogna di dire a tutti che si era sbagliata e che la vita che gli altri le invidiavano non era mai esistita.
Le cronache dell’epoca dissero che il movente era stata la gelosia, la verità è che mia madre voleva lasciarlo per i suoi comportamenti violenti e non perché avesse un altro, ma questa era un’eventualità che mio padre non riusciva neanche a concepire. La famiglia dei miei nonni era molto potente ed ebbe gioco facile nel manipolare gli organi di informazione. In qualche modo si voleva insinuare il dubbio che quel gesto efferato fosse stato provocato dai comportamenti discutibili della vittima, un costrutto che serviva ad alleviare le responsabilità di mio padre in sede giudiziale. Andò a finire che grazie a una campagna stampa benevola e all’abilità dei suoi avvocati, mio padre riuscì a ottenere il minimo della pena.
Sono passati trent’anni da quella vicenda e io non ho ancora finito di accusare il colpo, mia madre è stata vittima di femminicidio, un delitto odioso che colpisce le donne, quando si vogliono sottrarre al controllo dell’uomo. All’epoca il termine non era stato ancora coniato ma la mattanza era già iniziata. È difficile esprimere a parole i sentimenti che ho provato da bambino, quando sono rimasto orfano di entrambi i genitori, dico di entrambi perché se è vero che solo mia madre era morta, mio padre in carcere, per il suo omicidio, era come se fosse morto pure lui. Io e mia sorella fummo affidati dal Tribunale dei Minori ai miei nonni paterni e in casa ci venne affiancata una tata che si prendeva cura di noi. Io ero molto più legato a lei che a mia nonna perché pur rigorosa, non mancava di gesti affettuosi, che erano quelli di cui maggiormente avevo bisogno. A scuola ero trattato con riguardo dagli insegnanti, ma tenuto a distanza dai compagni. La conseguenza fu che crebbi sentendomi molto solo e sviluppai una forma di sordido rancore nei confronti dei miei nonni che non spesero mai una parola affettuosa su mia madre, mentre si prodigarono sempre per mantenere alta l’immagine del loro indifendibile figlio. Quando mio padre finì di scontare la pena, io andai via di casa. Il pretesto me lo fornì l’università alla quale scelsi di iscrivermi ma la verità è che io non tolleravo l’idea di dormire sotto il suo stesso tetto. Da tempo non stavo bene, soffrivo di sonnambulismo e avevo anche accusato problemi di anoressia, una malattia inconsueta per un ragazzo. Avevo chiesto aiuto allo psicologo della scuola, ed era stato lui a consigliarmi l’allontanamento dal mio habitat familiare. Appena mi fu possibile, seguii il suo consiglio, anche se agli inizi mi pesò moltissimo la lontananza da mia sorella. Non ho rivisto mio padre fino a qualche giorno dopo il mio trentesimo compleanno, quando me lo ritrovai sulla soglia del mio appartamentino londinese. Già in passato aveva cercato di mettersi in contatto con me ma io avevo respinto ogni suo tentativo di riavvicinamento. Me lo trovai di fronte abbronzato, con il sorriso smagliante e in splendida forma. Era in compagnia di una donna piuttosto attraente, molto più giovane di lui. Preso in contropiede li feci entrare. Lui, perfettamente a suo agio nel ruolo di bon viveur, si comportava come se non fossero passati quindici anni dall’ultima volta che ci eravamo visti, come un vecchio amico, di passaggio in città, che si ferma per un saluto. La donna che era con lui mi fu presentata come la sua fidanzata. Stavano insieme da qualche anno, da quando lui si era trasferito a Santo Domingo, per rifarsi una nuova vita e siccome aveva deciso di risposarsi, aveva pensato di farmela conoscere. Ovviamente, ero invitato al suo matrimonio, che voleva celebrare in Italia con la sua famiglia al completo. Disse che era tempo di dimenticare il passato e che quella era la giusta occasione per inaugurare un nuovo capitolo della nostra storia familiare.
Guardavo mio padre e non mi capacitavo della sua superficialità, poi il mio sguardo si posava sulla giovane donna e mi chiedevo se fosse a conoscenza del passato sul quale mio padre diceva di voler mettere una pietra sopra. Li congedai frettolosamente con una scusa, la testa mi scoppiava, passai il resto della mattina a vomitare il dolore e la rabbia che non ero riuscito a esternare in quel frangente.
Ventiquattro anni dopo la morte di mia madre, mio padre veniva a invitarmi al suo matrimonio e la sua apparizione estemporanea aveva fatto ripiombare la mia esistenza nel più completo caos emotivo.
Il matrimonio ci fu e ovviamente né io né mia sorella vi partecipammo ma neanche sapere mio padre al di là dell’oceano bastava a placare la mia rabbia. Poi accadde un fatto apparentemente casuale che mi consentì di guardare le cose da una prospettiva diversa. Un amico scrittore mi aveva chiesto di accompagnarlo alla presentazione di un suo libro, organizzata presso un istituto penitenziario. Gli avevo detto di sì senza pensarci su troppo e solo in seguito venni a sapere che l’evento si sarebbe tenuto nel carcere dove mio padre aveva scontato la pena. Entrare in quel posto, attraversare da uomo libero, gli stessi corridoi e i cancelli in ferro che mio padre aveva conosciuto da detenuto, mi suscitarono un sentimento di pena infinita e lentamente si fece strada in me la convinzione che un posto come quello non potesse scivolare via dalla testa e dal cuore di un uomo, senza farlo prima riflettere sulle proprie colpe. Pensarlo dietro quelle sbarre mi riconciliava se non con mio padre, almeno con il mio dolore; sentendo le testimonianze di chi, in quel luogo angusto, stava scontando la sua pena, ero certo che anche lui, tra quelle mura, avesse avuto la sua parte di dolore. Anche se non era stato capace di manifestarmelo o anche solo di accennare una richiesta di perdono che peraltro non gli avrei concesso.
Quella sera uscii con il cuore in subbuglio ma è grazie a quell’esperienza forte che riuscii a individuare i giusti fili da cui ripartire, per dipanare l’intricato groviglio dei miei sentimenti e delle mie emozioni.
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