Tu non mi fai paura

Cuore
Ascolta la storia

La storia più apprezzata della settimana è “Tu non mi fai paura” di Giovanna Sica, pubblicata sul n. 5 di Confidenze. Una nostra lettrice, Rosanna, scrive nella pagina Facebook: “un tema di grande attualità di cui non si parla mai quanto si dovrebbe. Le conseguenze poi le leggiamo tutti i giorni sui giornali”.

 

Storia vera di Nina A. raccolta da Giovanna Sica

 

È lui. Ne sono sicura. Anche se è buio fuori dalla macchina, ne sono sicura. È lui nello specchietto retrovisore. E anche lui, Daniele, mi ha vista. È stato solo un attimo, poi ho distolto lo sguardo. Ma in quella frazione di secondo, quei suoi occhi cattivi mi hanno agganciato ancora una volta. Come tanto tempo fa.

Questa storia potrebbe principiare in tanti modi. Credo che quello più significativo sia ammettere sin dall’inizio che sono stata un’adolescente insicura. Impaurita. Una che non si è mai sentita all’altezza degli altri. Perché io ero grassa e gli altri erano magri. E anche quando non erano proprio secchi secchi, comunque mi sembravano sempre più magri di me. E pensare che da bambina ero talmente snella che di profilo non mi si vedeva. Verso i dodici anni cominciai a ingrassare. Sbalzi ormonali, ma non solo: il cibo mi calmava quando ero in ansia per qualcosa. E io andavo spesso in agitazione in quegli anni. Nel mio gruppo di amici ero ben inserita, ma non allo stesso modo delle altre ragazze della comitiva: io ero quella che faceva ridere i maschi, l’amica con cui fraternizzare. La “chiattona” simpatica. Fu così che arrivai a ventitré anni senza aver mai avuto un fidanzato.

Quando Daniele si mostrò interessato a me, non riuscivo a crederci. Lui entrò nella mia vita e nel mio cuore il giorno che si presentò in azienda da mio padre per un colloquio di lavoro. La mia famiglia vende arredo bagno. La nostra è un’impresa a conduzione familiare: i miei genitori, io e le mie due sorelle gestiamo insieme quattro punti vendita. Il curriculum di Daniele attestava che era un bravo rappresentante, e anche molto esperto nel nostro settore. Ma ciò che convinse mio padre ad assumerlo fu la sua onestà. Daniele confessò al suo futuro datore di lavoro che era fermo da un anno perché aveva avuto problemi con l’alcol. Ma che poi si era deciso a farsi aiutare e ora non beveva più da mesi. Antonio, mio papà, si intenerì di fronte a questo giovine che gli chiedeva una possibilità per dimostrargli quello che sapeva fare. Mio papà è nato povero, tutto ciò che ha creato nel tempo è stato frutto della sua determinazione. Spesso ricordava che quando era solo un ragazzo volenteroso, un uomo gli aveva dato una grande occasione prendendolo a lavorare con lui e insegnandogli tutti i trucchi del mestiere di venditore. Forse, chissà, Antonio rivide qualcosa di se stesso in quel candidato.

Fu così che Daniele entrò nella mia vita. Da subito si rivelò bravissimo sul lavoro: in poco tempo quasi tutti i clienti chiedevano di essere serviti da lui, dal giovanotto nuovo. Io non ero per niente infastidita dal fatto che l’ultimo arrivato mi avesse scansato con tanta facilità, anzi. Ero orgogliosa del suo successo. A me Daniele piaceva tanto. E forse, anch’io gli piacevo. Sembrava che con me la sua cortesia professionale sfociasse in una gentilezza che andava oltre i rapporti lavorativi.

Daniele mi sorrideva. Mi cercava con gli occhi quando dovevamo risolvere qualche problema. Si creò fra di noi un tale affiatamento che se ne accorsero tutti che stavamo bene assieme.

«Nina, che ne dici se ora che chiudiamo questa pratica ce ne andiamo a mangiare una bella aragosta insieme? Conosco un posticino non lontano da qui dove la fanno da dio» propose una sera che si erano fatte già le otto, e noi avevamo la scrivania ancora sommersa di scartoffie. «Sì Daniele, mi sembra proprio una bella idea» esclamai con troppa enfasi.

A me l’aragosta manco piaceva, ma non stavo aspettando altro che quell’invito, da settimane. Ogni mattina mi svegliavo e pensavo: “magari oggi Daniele mi chiede di andare a prendere un caffè, o a mangiare una pizza”. Certo, non avevo mai pensato all’aragosta, ma quello era solo un dettaglio, credevo.

 

Il locale in cui Daniele mi portò era davvero elegante e raffinato. Uno di quei ristoranti in cui tutto il personale ti gira intorno per esaudire i tuoi desideri. Coi tuoi soldi, ovviamente. Io mangiai poco, ero troppo emozionata. Daniele non si fece mancare niente. Chiedeva, assaggiava, rimandava indietro, sorrideva, sorseggiava, diceva: «Ora va bene». Capii che era uno che se ne intendeva parecchio, sia di cibo sia di vino. A tal proposito, sapendo che aveva avuto problemi di alcolismo, gli chiesi se non fosse pericoloso per lui stappare una bottiglia. «Nina, cosa che vuoi che siano due bicchieri di vino! Non hai idea di cosa bevevo prima».

A me, veramente, a fine pasto, era sembrato che la bottiglia fosse vuota, ma non replicai nulla, ero troppo abbagliata dal suo splendido viso e dai suoi modi da uomo vissuto, anche se aveva solo venticinque anni.

Al momento di pagare, io gli proposi di dividere il conto, che sicuramente era una cifra molto alta, ma lui fu irremovibile: un’altra volta avrei pagato io.

«Così sono sicuro che ti vedrò ancora fuori dall’ufficio» aggiunse con un sorriso ammiccante.

Mi riaccompagnò a prendere la mia macchina che era rimasta fuori dal negozio, e quando avevo già aperto la portiera dell’automobile per scendere, lui mi attirò a sé, mi prese entrambe le mani, chiuse lo sportello e mi baciò come non aveva mai fatto nessuno prima d’allora. Un bacio vero. Appassionato. Di quelli che non si risolvono sulla bocca, ma che poi ti portano a fare l’amore, e se non ci arrivi, al sesso, ti lasciano spossata e in attesa.

Tant’è vero che non passarono che tre giorni e io e Daniele ci ritrovammo di nuovo a cena fuori. In un altro ristorante stellato, a ordinare altre prelibatezze che stavolta, senza neanche insistere troppo, pagai io.

Era sabato, Daniele era venuto a prendermi a casa. Dopo cena mi portò a fare un giro in macchina, a vedere le stelle su una collina isolata e lì si consumò il prosieguo del nostro primo bacio.

Era la prima volta che facevo l’amore e non fu bello e non fu come me l’aspettavo. Il bacio carnale di tre sere prima aveva creato in me aspettative che rimasero deluse. Fece tutto Daniele. Mi spogliò e mi prese. E poi mi spostava, mi girava, mi muoveva, come se fossi una bambola. Tutto assecondando il suo piacere. Anche se, lì per lì, io pensai di non aver goduto di niente perché ero troppo impegnata a vergognarmi. Sì: era la prima volta che un uomo mi toglieva i vestiti di dosso. E io che avevo un rapporto pessimo con il mio corpo, ero molto concentrata sulla sua reazione a ogni indumento che mi sfilava via. Ma Daniele era impassibile: sembrava non importargli affatto del grasso in eccesso attorno al mio girovita.

Ero felice: ora avevo un fidanzato, e che fidanzato! Un ragazzo bello, affascinante, bravo nel suo lavoro e che piaceva anche alla mia famiglia. E che non mi faceva pesare i miei chili in più, che non mi chiedeva di mettermi a dieta – per amor suo – come mi aveva detto un tizio un paio di anni prima;  anzi, mi portava a mangiare nelle migliori osterie. E mi sembrò un particolare trascurabile, allora, il fatto che in quei ristoranti costosi fossi sempre io a passare per la cassa. Il mio fidanzato esigeva solo piatti stellari e vini pregiati e io strisciavo il Bancomat. Mi ero data la giustificazione che io ero ricca e lui no. Che col suo stipendio non avrebbe potuto permettersi quelle cene gourmet, e che quindi non c’era niente di male se ero io a saldare il conto. E poi da quando stavo con lui non ero più una sfigata. Il sesso continuava male. Ma anche a quello avevo trovato una spiegazione: ero io che non riuscivo a lasciarmi andare perché non ero sicura del mio corpo, Daniele non c’entrava niente con la mia incapacità di provare piacere. E comunque, non era poi così importante: a me bastava che i nostri rapporti soddisfacessero lui. A me bastava solo che non mi lasciasse.

Ma questo era solo l’inizio. Non sapevo ancora che ero finita nella rete di un ragno aguzzino pronto a ridurmi in brandelli. Daniele cominciò a chiedermi dei soldi. «A cosa ti servono, amore?». «Secondo te mi basta la miseria di stipendio che mi dà tuo padre?».

«Daniele, mi sembra che tu percepisca un’ottima paga. Forse è il tenore di vita a cui aneli a essere troppo alto per le tue finanze».

Schiaffo. Forte. In pieno viso. La faccia che si torse all’indietro. Il collo che non potè fare a meno di assecondare la sua mano. Il rumore squillante dello schiocco delle dita contro la mia guancia. E io che nemmeno lo sapevo che i ceffoni avessero un suono. Non ne avevo mai preso uno in vita mia. Ma più forte dell’impatto fisico, fu il senso di inadeguatezza. Il desiderio assurdo che non fosse vero, di aver fatto un brutto sogno, perché ammettere che Daniele mi aveva picchiata voleva dire mettere in discussione tutta la mia felicità di cartapesta. Lui non si scusò nemmeno. Si accese una sigaretta e se ne andò sul balcone. Io aprii il portafoglio e gli allungai duecentomila lire. Gliele lasciai sul comodino della sua camera e me ne andai. In lacrime. Non sapevo da chi andare a farmi consolare: se lo avessi detto alle mie sorelle o a mia madre, loro avrebbero cacciato il mio ragazzo dall’azienda; e io non volevo che il mio ragazzo uscisse dalla mia vita. Io volevo solo aver sognato. Non era vero niente. Non era possibile che fosse vero quello che sospettavo ormai da mesi, che Daniele stava con me solo per interesse, che forse non mi aveva mai voluto bene, che ero solo uno spauracchio nelle sue mani.

Il giorno dopo facemmo entrambi finta di niente. Lui si atteggiò a simpatico e mi ricordò che da lì a una settimana sarebbe stato il suo compleanno, e che come regalo voleva un orologio. Ma non un orologio qualsiasi. Lui mi specificò modello, colore e perfino l’oreficeria dove l’aveva visto e, naturalmente, già prenotato. La cifra necessaria per comprare quel gioiello era alta, ma io avevo dei risparmi e pensai bene di accontentarlo. Ma la sua contentezza durava sempre poco. Daniele era come quei bambini capricciosi che appena ottengono un giocattolo non sanno più che farsene e ne vogliono un altro. E quando io provavo a fargli notare che mi faceva buttare via un sacco di soldi, lui mi rivolgeva uno sguardo carico di disprezzo e mi sbertucciava: «Sei proprio un’ingrata: anziché ringraziare Dio di avere al fianco un uomo come me, ti preoccupi dei soldi». Ecco. Le sue parole ora non lasciavano spazio a nessun fraintendimento. Io per Daniele ero solo un investimento. Un salvadanaio  pieno di monete d’oro. A quel primo schiaffo ne seguirono altri, sempre più forti, sempre più cattivi. E poi pugni. Calci. Una volta mi fece attraversare tutto il corridoio di casa sua trascinandomi per i capelli.

Fu mia sorella Nara ad accorgersi dei lividi. E se la prima volta fece finta di credere che ero caduta per le scale di casa, la seconda mi costrinse a raccontarle tutto. E io tutto le sputai fuori. La vergogna. La paura. Il dolore. Mia sorella pianse più forte di me, quel giorno. Era sconvolta. Appena Daniele arrivò in ufficio lo affrontò con durezza. Lo licenziò. Gli intimò di non avvicinarsi mai più a me se no l’avrebbe denunciato. Lui cercò di convincerla che mi ero inventata tutto, che ero una persona disturbata che voleva vendicarsi del fatto che lui stava per lasciarla, perché non ne poteva più della sua gelosia ossessiva. Nara gli disse che aveva visto le ecchimosi. Il conto in banca prosciugato. Gli urlò di andarsene e di non farsi vedere mai più se non voleva finire in galera. «Non finisce qui» minacciò il farabutto. E se ne andò.

E davvero non finì quel giorno, il mio calvario. Daniele denunciò mio padre per averlo licenziato su due piedi. Era furbo: sapeva che io non avrei mai avuto il coraggio di trascinarlo in Tribunale per le percosse subite. Chiese una lauta liquidazione, ma non la spuntò: dopo che il mio babbo seppe la verità, piuttosto che mettergli in mano altri soldi, avrebbe preferito mandare a rotoli l’azienda. Daniele mi telefonava e mi assicurava che me l’avrebbe fatta pagare. Che se mi avesse trovata per strada mi avrebbe messo sotto con la macchina. Che se mi fidanzavo con un altro gli avrebbe raccontato che ero una puttana. Cambiai numero, ma lui era scaltro, sapeva sempre come rintracciarmi. Poi un giorno ci giunse la notizia che l’avevano arrestato per qualche imbroglio che aveva commesso. Io tirai un lungo sospiro di sollievo, ma sapevo di avere ferite ancora aperte nella mia anima. Cominciai a frequentare lo studio di una psicologa.

Una dottoressa mi aiutò a credere in me. A estirpare dalla mia testa la convinzione balorda di non meritare l’amore di un uomo solo perché ero in sovrappeso. Diceva: «Arriverà. Arriverà quando avrai imparato tu per prima ad amarti, a riconoscerti un valore». E così è stato. L’amore, quello che si può davvero definire tale, poi è arrivato.

Si chiama Andrea ed è mio marito da cinque anni. Abbiamo due bambini, Francesco e Davide. E siamo una famiglia felice. Con mio marito ho scoperto di non essere frigida, semplicemente avevo bisogno di avere accanto un uomo che avesse a cuore il mio piacere. Ho fatto tante diete negli anni, sono dimagrita, ma ho anche imparato a fregarmene dei chili in più.

So che proprio secca non lo diventerò mai, che non potrò mai permettermi quei vestitini deliziosi che stanno bene solo a chi pesa poco, ma, la donna che sono oggi è più forte di questo piccolo dolore. La donna che sono oggi è amata.

E niente calza a pennello sul cuore di una moglie come un marito innamorato.

Quindi sì, Daniele, per un attimo mi hai agganciato ai tuoi occhi cattivi. Ancora una volta mi hai messo a disagio. Ma è durato poco. Non sono più da un pezzo quella ragazza insicura che aveva paura di te. Rimetto gli occhi nello specchietto retrovisore. I tuoi sono ancora là. Accenno un sorriso che non c’entra niente con te. Sul cellulare è arrivato un cuore. Grande. Rosso. Pulsante. Mittente: mio marito. Tu non sei più nessuno, Daniele. Non mi fai più paura.

Confidenze