“Quando detti la mano alla moglie di Henry, sentii la terra. Ci guardammo. I suoi occhi erano immobili, uno sguardo pieno di dolore e di odio come se volesse imprimersi il mio volto in modo indelebile. Una donna non bella, amareggiata, che interrogava di continuo la propria vita per trovare il responsabile di tanta banalità e di tante speranze svanite. Ti picchierà, dicevo a me stessa, ti schiaffeggerà sulla tomba aperta di suo marito. Questo pensiero mi divertiva. Con un movimento rapido ritirai la mano e passai davanti ai bambini. Poi mi porse la mano il pastore. Aspettavo che mi dicesse qualcosa, una frase insignificante con la sua voce morbida. Invece mi strinse solo la mano e mi guardò irradiandomi con la sua stereotipata compassione. Peccato, signor pastore. A pochi passi dalla tomba si riunirono di nuovo i convenuti. Attendevano lì la fine della funzione, la moglie, i figli. Passai velocemente davanti a loro sperando solo di non smarrirmi. Credevo di sentire gli sguardi della donna sulle spalle”.
Claudia ha un dubbio, il giorno del funerale di Henry. E questo dubbio apre il romanzo, il primo, pubblicato nel 1982 in Germania. Andare oppure no al funerale di Henry?
Siamo a Berlino Est, la Germania non è unita, e anche la vita dei suoi cittadini sembra procedere scissa. Claudia ha vissuto un dolore forte. Da allora vive come distaccata dalle cose, dai sentimenti. È un medico, lavora in una clinica. È indipendente.
Henry, il morto (un litigio, una sera, in un pub; un pugno assestato a dovere. È stato un attimo, dicono i risultati dell’esame autoptico, passare dalla vita a quella cosa che chiamiamo morte), ha una moglie, due bambini. E una inconsistente presa sul reale.
Claudia e Henry un giorno si incontrano. Un grattacielo composto da monolocali dove vive gente sola, in attesa di passare ad altro. Anziani in tempo di scadenza. Single proiettati verso una possibile unione amorosa o familiare. Persone separate (non importa se definitivamente o solo per pause di riflessione). E poi inquilini come Claudia. Claudia che ogni volta dice “sto bene, sono una donna realizzata, non ho bisogno di nulla”. Inquilini come Claudia, distrutti dalla liquidità dei rapporti e delle relazioni, senza più speranze, senza sogni, ormai insensibili, quasi anaffettivi.
Claudia e Henry hanno una relazione. E Claudia ci racconta questo amore imperfetto e claudicante intrecciando le emozioni e i fatti del loro rapporto con gli avvenimenti della sua vita di bambina, di giovane donna, di adulta. Con le sue perdite e le sue sconfitte. “Sono cose che accadono. È normale”, dice Claudia. “Perché? Perché? Perché?”, ci grida con la voce strozzata dal silenzio. Ma noi la sentiamo. Conosciamo quella disperazione.
La prosa di Hein è potentissima: la calma del narrare è speculare allo stato d’animo di Claudia. Un controllo militare, una terribile disciplina sentimentale figlia della delusione, della sconfitta, della perdita.
“Sto bene”, dice Claudia. “Non può accadere nulla di stabile e duraturo, per me” è la traduzione spietata, esatta.
Sono passati 35 anni, da allora. Hein ha scritto il libro, il manuale, della generazione nuova.
Christoph Hein, L’amico estraneo, e/o
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