Non ti scordar di me

Cuore
Ascolta la storia

“Non ti scordar di me” di Pierluigi Lupo è una delle storie più apprezzate del n. 18 di Confidenze, ve la riproponiamo sul blog

 

Storia vera di Caterina P. raccolta da Pierluigi Lupo

 

Mio padre è morto due anni fa. Nonostante il nostro rapporto non sia stato facile, sento molto la sua mancanza. Forse è per questo che quasi ogni giorno vado al cimitero a portargli i fiori freschi. Purtroppo negli ultimi anni ci siamo visti sempre meno, e adesso rimpiango di non averci trascorso più tempo insieme.

I miei genitori si conobbero nel 1979. Mia madre era andata a Torino per rivedere suo fratello, e per trovare un lavoro. Nel frattempo, attraverso alcuni amici, aveva conosciuto mio padre. Tra loro, fin dall’inizio, scoccò l’amore. E tre mesi dopo si sposarono.

Mia madre non trovò lavoro, ma rimase subito incinta e nove mesi dopo arrivai io. In quegli anni vivevamo a Moncalieri, in provincia di Torino. Mio padre si alzava la mattina presto per andare alla Fiat Mirafiori, era operaio specializzato. Si spostava con la macchina. Una vecchia 1100 bianca, che poi sostituì con una Panda rossa. La domenica, se non era troppo stanco, andava con mia madre sulla collina di Superga, a mangiare in trattoria.

Però, dopo qualche anno di matrimonio, i miei genitori divorziarono. Il motivo della separazione dipese dal vizio di mio padre di bere. Quando rientrava la sera a casa, si attaccava alla bottiglia. Dopo un paio di ore diventava intrattabile, si trasformava completamente in un’altra persona. Forse lo faceva per dimenticare le lunghe ore passate in catena di montaggio, o era insoddisfatto di qualcosa. Da ragazzo studiava per diventare geometra, ma suo padre morì e lui dovette interrompere gli studi per andare a lavorare. Inoltre soffriva di non essere il cocco di mamma, che gli preferiva il fratello. E nei suoi accessi di gelosia finiva per accusare mia madre di andare a letto con altri uomini.

Appena ottenuto il divorzio, mia madre ritornò al suo paese con me. Ci stabilimmo a Castro, una località balneare in provincia di Lecce. Dalla finestra della mia stanza riuscivo a vedere il mare, e pensavo a mio padre che era rimasto a Moncalieri.

Poco tempo dopo, papà perse il lavoro alla Fiat e iniziò a fare tutto quello che gli capitava. Fu anche custode al Museo Egizio di Torino, ma alla fine perse anche quel posto e iniziò a lavorare a giornata come muratore.

Lo vedevo solo d’estate, in agosto. Io e mia madre andavamo a trovarlo nella casa di montagna a Pinerolo, dove abitava con la nonna.

Io e la mamma ci sistemavamo al piano di sotto, mentre lui stava al piano di sopra. Durante il giorno andavamo in giro tutti e tre insieme in macchina, oppure facevamo lunghe passeggiate sui sentieri di montagna. I miei genitori parlavano come se fossero ancora marito e moglie, e a volte si mettevano a cantare le canzoni di montagna. Io ero felice di stare con loro. Poi rientravamo a casa e tutto cambiava di colpo. Mio padre prendeva una bottiglia di vino e cominciava a bere. Ben presto si metteva a parlare da solo. A volte rideva, ma più spesso si arrabbiava, urlava, sbatteva le cose a terra e diventava intrattabile.

 

Una volta l’ho spiato da dietro una porta, mentre parlava alla bottiglia. Ingaggiava dei lunghi monologhi senza senso. Poi andava nella sua camera barcollando, si buttava sul letto e poco dopo iniziava a russare forte.

Nei momenti in cui era tranquillo, mi insegnava a suonare la chitarra. Ma appena sentivo il suo fiato puzzare d’alcol, lo lasciavo solo e scappavo via.

Poi mi fidanzai e per alcuni anni non andai più a trovarlo a Pinerolo. Avevo cominciato a lavorare in albergo e non avevo più molto tempo libero. Qualche volta lo chiamavo al telefono e gli raccontavo tutto quello che facevo, mentre lui non mi diceva quasi niente.

Aveva scoperto di avere il diabete. Mia nonna badava a lui come meglio poteva, ma si era fatta vecchia. Quando la nonna morì, mio padre rimase solo e finì per trascurarsi. Qualche anno dopo le sue condizioni di salute peggiorarono drasticamente e lui finì in ospedale. Mi ricordo che montai sul primo treno per Torino. Il medico mi disse che non c’erano molte speranze. Allora lo feci trasportare con l’ambulanza fino in Puglia.Lo sistemai a casa nostra, in una stanza libera. Io e mia madre ci occupammo di lui. Io gli facevo le iniezioni di insulina, lo lavavo, lo cambiavo. Mio padre riuscì a vivere ancora tre mesi. Quando si sentiva un po’ meglio, canticchiava vecchie canzoni. A volte mi capitava di vedere lui e mia madre cantare insieme, come se il tempo non fosse mai passato.

Un giorno dovemmo portarlo di corsa in ospedale a Lecce, aveva avuto un blocco renale. Era stato messo in sala rianimazione, e attaccato al tubo dell’ossigeno.

Avrei voluto parlarci un’ultima volta, sentire cosa aveva da dirmi. Vedevo che lui si sforzava di aprire la bocca, ma non gli usciva alcun suono. Però mi guardava, mi teneva la mano e gli scendevano le lacrime dagli occhi. «Papà, papà, ti voglio bene» dicevo. E lui mi ascoltava immobile.

Ripenso sempre a quei momenti che ci univano, alle nostre piccole grandi emozioni, come la notte del 31 dicembre che passammo a casa, davanti al caminetto. La nonna aveva cucinato il brodo di tacchino, il coniglio, le lenticchie con il cotechino. E io per l’occasione avevo fatto la torta Margherita.

Dopo mangiato, giocammo a carte. Verso le undici nonna andò a dormire, e noi due restammo soli ad aspettare la mezzanotte.

Mio padre prese la chitarra e cantò la sua canzone preferita: “Non ti scordar di me”. Gli ricordava mia madre, e ogni volta finiva per commuoversi. Poi, allo scoccare della mezzanotte, uscimmo in giardino a vedere i fuochi d’artificio. Era una notte splendida e restammo un bel pezzo con la testa rivolta verso l’alto, a guardare i fuochi e tutte le stelle del cielo.

Confidenze