Diversamente normale

Cuore
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La storia più apprezzata della settimana è “Diversamente normale” di Manuela Zanoletti, pubblicata sul n. 22 di Confidenze. Ve la riproponiamo sul blog

 

 

Valerio mi dice sempre che sono speciale, dolce e sincera, la ragazza che tanti vorrebbero accanto, ma io mi sento uguale agli altri. A dispetto della mia Sindrome di Asperger

Storia vera di Giada V. raccolta da Manuela Zanoletti

 

Mi chiamo Giada, ho ventidue anni e ho la Sindrome di Asperger. Niente di grave, invalidante o misterioso. In realtà si tratta di una forma di autismo talmente lieve che il recente DSM-5 (il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) dal 2013 non la cita più come patologia a sé. Adesso questa sindrome e stata incorporata nel più vasto “Disturbo dello Spettro Autistico”. 

Soffrire della Sindrome di Asperger non significa essere disabili, ma semplicemente avere delle caratteristiche tali che ti rendono un po’ speciale. Abbiamo le nostre difficoltà, per esempio fatichiamo a relazionarci, la nostra percezione sensoriale è a volte troppo sviluppata fino a provocarci fastidi, siamo goffi nello sport. Ma ci sono anche i lati positivi come una memoria di ferro, razionalità, concretezza e la predilezione verso un determinato interesse, in cui riversiamo tutte le nostre energie, riuscendo spesso a trasformare la nostra passione in un lavoro. Dicono che alcuni geni del passato come Newton, Mozart, Wittgenstein o Emily Dickinson, avessero la Sindrome di Asperger. 

In realtà a me sembra una forzatura. Tutto questo parlare di deficit e risorse, disabilità e genialità, mi crea solo una gran confusione. Non so se sentirmi normale, diversa o speciale. Io vorrei solo sentimi me stessa.

Sono stata una neonata bella e buona, che mangiava e dormiva in continuazione. Una fortuna per mia madre che, quando avevo solo cinque mesi scoprì di essere di nuovo incinta. Così sono cresciuta senza troppi vizi né attenzioni, ero una bambina tranquilla e ubbidiente che non ha avuto alcun ritardo nello sviluppo. Anzi, ho cominciato a parlare prima del previsto e non ho più smesso. Ero un vulcano di domande, trotterellavo dietro a mia madre con la bocca piena di «Perché mamma?». Volevo sapere tutto: perché il sole era giallo, perché lo zucchero era dolce, perché la neve cadeva dal cielo.

 

Lei, con tutta la pazienza del mondo, e con la mia sorellina sempre in braccio, cercava di soddisfare ogni mia curiosità. Poi mio padre ebbe la brillante idea di regalarmi dei libri. Ho passato ore a sfogliare quelle pagine e a osservare incantata quelle bellissime illustrazioni. Quando finalmente imparai a leggere, davanti ai miei occhi si spalancò un mondo nuovo: la conoscenza. Ero una divoratrice di libri, amavo sia i romanzi sia le enciclopedie per ragazzi. Ricordo che in mezzo pomeriggio, lessi le prime cento pagine del romanzo Piccole donne.

Mia sorella Sara era, e lo è ancora oggi, il mio opposto. Vivace, furba e socievole, da vera leader mi comandava a bacchetta. Quel giorno aveva deciso che dovevamo giocare a fare le mamme. Lei avrebbe dato il biberon al “Cicciobello” e io avrei dovuto cambiargli il pannolino. Non avendo una buona manualità i miei tentativi fallirono miseramente. Sara mi metteva fretta e così, non reggendo più la frustrazione, presi il bambolotto e lo buttai. Mia sorella ne rimase sgomenta mentre io finalmente tornai a leggere il mio romanzo.

Dopo quell’episodio la mamma decise di far venire a casa nostra le amichette di Sara. In breve tempo lei si creò un gruppetto di amiche e tra loro cominciò un giro di inviti reciproci.

Io invece stavo sempre a leggere, sola e senza amici. Sicuramente era colpa della mia estrema timidezza ma anche di un totale disinteresse da parte degli altri. Non mi prendevano in giro né mi ignoravano di proposito, semplicemente per loro ero trasparente. Per farmi uscire da questa situazione i miei genitori mi regalarono Lilly, una dolcissima barboncina. Aveva un buon odore e il suo pelo era sofficissimo, stare con lei mi era di grande conforto. Mi ha fatto capire quanto i cani siano creature straordinarie, capaci di darti un amore incondizionato in cambio di poco. Ancora oggi penso che sia stata la mia migliore amica d’infanzia.

A quattordici anni cominciai la scuola superiore. Avevo scelto un liceo d’impronta umanistica, in una cittadina poco distante. In classe mi sentivo integrata, le altre ragazze mi parlavano, anche se magari puntavano più ai miei appunti che alla mia compagnia. L’anno seguente anche Sara si iscrisse nella mia stessa scuola con la speranza di poter vivere di rendita grazie ai miei appunti e libri usati. Fu un disastro. La cantilena di mia madre era sempre la stessa: «Se Sara studiasse di più e uscisse di meno! E se Giada studiasse di meno e uscisse di più!». Papà invece era più cauto. «A me Giada va bene così» commentava.

Mia madre fece di testa sua. Disse a Sara che doveva a tutti i costi portarmi con sé quando usciva e in cambio io l’avrei aiutata con i compiti. Soluzione che non piacque a nessuna delle due.

I pomeriggi passati con Sara e le sue amiche erano per me di una noia mortale. Parlavano solo di vestiti, trucchi e smalti. Se poi per caso c’erano dei ragazzi loro si mettevano in mostra, con smorfie e risatine acute. Flirtavano con una facilità impressionante. Mi chiedevo come facessero a essere così spontanee e naturali, io in quelle situazioni mi sentivo un’aliena. Di conseguenza nessun ragazzo mi degnò di uno sguardo mentre Sara in breve tempo si fece il fidanzatino. Così smisi di uscire e fu un gran sollievo per tutti.

L’anno seguente mia sorella lasciò il liceo per frequentare la scuola professionale di Estetica mentre io cominciai la terza superiore. Il primo giorno di scuola ci accolse una giovane donna, che si presentò come la nuova professoressa di psicologia.

 

Appena laureata, non vedeva l’ora di mostrare a tutti quanto fosse brava. E lo fece, cominciando a osservarmi come se fossi una cavia da laboratorio. Un giorno, appena suonata la campanella dell’intervallo, mi disse che voleva parlarmi. «Non preoccuparti Giada» mi spiegò, «sai benissimo che il problema non è il tuo rendimento scolastico. È il resto che mi preoccupa. Sei sempre da sola a leggere. Non ascolti mai la musica. Non ti vedo mai con lo smartphone in mano, mentre le tue compagne mandano messaggi da mattina a sera».

«Uso il cellulare solo per andare su Internet. Ma non sono iscritta né a Facebook, né a Whatsapp». «E perché?» mi chiese lei. Alzai le spalle, per me erano cose che mi lasciavano indifferente.

«Se non condividi nessun interesse con i tuoi coetanei ti isolerai sempre di più. Poi ho notato che ti vesti sempre allo stesso modo. Ti sei accorta come questa cosa sia strana per le altre ragazze?».

Fece quest’ultima considerazione con tutto il tatto possibile ma io ne rimasi lo stesso ferita. Perché doveva essere un problema per le altre se mi vestivo sempre nel modo più pratico e comodo per me? Quel breve colloquio mi lasciò triste e confusa. La professoressa chiamò i miei genitori e cercò di spiegare loro le sue perplessità. Così mi fecero visitare da un dottore, specializzato in neuropsichiatria, che dopo appena quattro colloqui sentenziò che senza ombra di dubbio avevo la Sindrome di Asperger.

«È una ragazza estremamente intelligente e con ottime capacità linguistiche. Per questo la diagnosi è stata tardiva».

I miei non si persero d’animo. Cominciarono a informarsi e cercarono il modo di aiutarmi. Ebbero la brillante idea di iscrivermi a un corso di Judo. Allenamenti due volte a settimana, e gare un paio di volte al mese. Il rigore, l’impegno e la serietà di questo sport mi piacquero molto e riuscii ad aprirmi un po’. Non diventai mai una campionessa di Judo, ma quando uscivo con le altre ragazze della squadra a mangiare una pizza, per i miei genitori era una grande vittoria.

Finite le superiori decisi d’ iscrivermi alla facoltà di Lettere. La mia grande passione per i libri mi aveva spinto in questa direzione. La sede universitaria era a circa trenta chilometri da casa mia. Ed è stato proprio lì che, circa un anno fa, ho conosciuto una persona speciale.

 

Era il primo appello dell’esame di Storia della Letteratura Medioevale. Mi ero seduta verso la metà dell’aula, già gremita di studenti. Poco dopo, mi si era avvicinato un ragazzo che conoscevo di vista.«Ciao» si era presentato, «sono Valerio. Non so se ti ricordi di me».

«Sì, mi ricordo. Hai frequentato tutte le lezioni tranne le ultime quattro» avevo risposto.

«Mi hai per caso tenuto d’occhio?» aveva detto malizioso. «No, ho solo una memoria di ferro. Mi ricordo di tutto e di tutti, anche dei particolari più insignificanti».

«Buon per te» commentò Valerio, «lo so che sei brava e per questo volevo chiederti un favore. Ho smesso di frequentare a causa di un serio problema di famiglia. Attraverso il gruppo su Internet sono riuscito a recuperare degli appunti ma mi sono rimasti dei dubbi sulla Divina Commedia. Avresti voglia di spiegarmi un po’ tu?». L’esame era orale e a interrogare c’erano solo una professoressa e due assistenti. Per ben due ore esposi tutto ciò che sapevo su Dante. Poi mi chiamarono, sostenni il mio esame e presi trenta. Alla fine tornai da Valerio. «Bene» dissi sedendomi di nuovo vicino a lui, «adesso andiamo avanti».

«Davvero non vai a casa?» sembrava piacevolmente sorpreso.«Non posso» avevo risposto scandalizzata. «Siamo arrivati solo a metà parafrasi del Quinto canto. Devi assolutamente sapere come finiscono quei due poveri amanti!».

Quando, circa un’ora dopo, Valerio venne interrogato se la cavò egregiamente prendendo un bel ventotto.

 

Tornò a posto raggiante, con gli occhi azzurri che brillavano e i riccioli danzanti. È stato allora che mi sono accorta di quanto fosse carino.

«Andiamo» mi disse afferrandomi per mano. «Credo proprio di essere in debito con te. Hai fame?». Annuii. Seduti al bar, mentre mangiavo voracemente un panino, Valerio non smetteva di guardarmi.

«Certo che sei proprio strana. Sei una secchiona ma allo stesso tempo sei bella e così semplice. Non ti dai arie, non sei truccata, né hai quelle unghie da strega che sfoggiano tutte adesso».

«Non sono cose che mi interessano. Io ho la Sindrome di Asperger, non seguo le mode» avevo buttato lì con noncuranza. Valerio aveva strabuzzato gli occhi.

«La che…?» aveva quasi urlato. Ero scoppiata a ridere. «Non preoccuparti, non è contagiosa». E poi mi ero gettata in una lunga spiegazione su Hans Asperger e su dove, come e quando avesse scoperto tale patologia. Lui mi aveva ascoltato senza interrompermi, cosa che avevo molto apprezzato: «Interessante» aveva detto infine. Poi mi aveva accompagnato alla fermata dell’autobus. «Che ne dici se qualche volta…» aveva cominciato. L’arrivo del pullman aveva distolto la mia attenzione.«Devo andare» ed ero corsa via senza troppe cerimonie. Un paio di settimane dopo lo reincontrai nei corridoi dell’università. Camminava verso di me sorridente «Ciao,  sai che ti stavo cercando?» mi disse con enfasi.

«Non ti ho mai visto a lezione quindi immagino che tu abbia bisogno di appunti» avevo dedotto ad alta voce.

«No, non si tratta di studio. In realtà volevo chiederti di uscire con me».

«Significa che ti piaccio?» avevo chiesto candidamente. «Ma certo che mi piaci e tanto. Bisogna proprio dirti tutto?». Così abbiamo cominciato a uscire insieme. Di Valerio ho apprezzato subito la dolcezza e la delicatezza mostrata nei miei confronti. Lui mi ha corteggiata come un gentiluomo d’altri tempi. La sera di San Valentino mi ha portato in un incantevole ristorante sul lago. Dopo un’ottima cena romantica siamo usciti a guardare le luci che si specchiavano nell’acqua, e lì mi ha dato il suo regalo: un orsetto di peluche e una scatola di cioccolatini. «Grazie, sono i miei preferiti» gli ho detto. Poi ci siamo messi seduti su una panchina e mentre lui faceva apprezzamenti sulla maglietta che gli avevo comprato, io aprivo i cioccolatini. Siamo rimasti lì, felici come bambini, a scartare e divorare dolcetti. A un tratto ho sentito la sua mano calda sul mio viso, che mi puliva via un baffo di cioccolato. Poi mi ha attirato a sé e mi ha baciato. È stato il bacio più incredibile del mondo. Non solo perché aveva il gusto di gianduia ma perché mi ha fatto battere il cuore all’impazzata.

Valerio non mi ha mai messo fretta, anche la nostra prima volta è stata bellissima, persino più di quel bacio. Sono felice di stare con lui e vorrei che questa storia non finisse mai. Ma siamo molto giovani quindi non so cosa potrà accadere. Sapere che lui mi ama per quello che sono mi riempie di gioia. E mi ha fatto anche aumentare l’autostima al punto che ora mi sento davvero “normale”. Valerio non sembra d’accordo.«Perché vuoi essere normale quando sai benissimo di essere speciale? Dolce, sincera, semplice e disarmante: sei la ragazza che tutti vorrebbero accanto».  Però lui lo sa che cosa intendo dire veramente. Quello che voglio è una sorta di riconoscimento  sociale. Vorrei che la Sindrome di Asperger non fosse considerata una disabilità ma uno dei tanti modi in cui le persone hanno il diritto di essere e di esistere. Perché tutti siamo imperfetti, con i nostri limiti e difficoltà, ma anche con i nostri pregi e competenze. Vorrei che la diversità, in ogni sua forma, fosse la nuova normalità. Così io potrei essere orgogliosa di essere diversa.

 

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