Con il mese di agosto l’estate entra nel vivo, e allora abbiamo pensato di chiedervi di condividere con noi il ricordo di una vacanza particolare che vi è rimasta nel cuore, perché magari è stata suggello di un nuovo amore o di un’amicizia importante, o più semplicemente perché ha lasciato dentro di voi qualcosa di unico e irripetibile. Un po’ com’è successo alla protagonista della storia vera raccolta da Mariagrazia Nemour “Io ti curo” pubblicata su questo numero di Confidenze, che a distanza di anni ricorda le emozioni e i sentimenti contrastanti vissuti durante una vacanza in Calabria da ragazzina. Sono convinta che ciascuna di voi ha la propria estate del cuore, io la mia ve la racconto qui sotto, per chi vuole leggerla, ma aspetto di scoprire anche le vostre.
Era l’estate del 1975 e io facevo le scuole elementari, ogni anno con la mamma e mia sorella trascorrevamo il mese di luglio in un piccolo albergo di montagna in Valtellina, papà ci raggiungeva nei fine settimana. Erano giornate spensierate che noi bambini passavamo sempre all’aria aperta in riva al torrente, a giocare a fare le dighe con i massi o a studiare un guado per passare da una sponda all’altra, senza finire con i piedi in acqua. Che poi era invece il fine liberatorio di tutta la giornata: provare l’ebbrezza delle acque gelide del torrente alpino.
La giornata iniziava di buon mattino quando la truppa si muoveva per l’escursione quotidiana: c’eravamo io, mia sorella, la mamma insieme a due altre signore ospiti dell’albergo con i rispettivi figli, più i figli dell’albergatore: a fare da guida della spedizione, un ingegnere, scapolo e senza figli, ospite anche lui dell’albergo, che ogni anno si improvvisava capo scout, intrattenendoci in giochi e attività. L’obiettivo finale della vacanza quell’anno era costruire un ponticello di legno sopra la diga da noi tracciata giorno per giorno con pietre e ghiaia.
Un’occupazione che riempiva intere mattinate: bisognava prima cercare i massi della grandezza giusta per fare la diga, lasciando sempre un punto di scarico dell’acqua del torrente onde evitare esondazioni, poi era la volta di cercare i legnetti della consistenza giusta, levigarli e pareggiarli in lunghezza e infine unirli con un fil di ferro per fare appunto il ponticello. In genere l’opera ingegneristica si concludeva per la fine della vacanza, in concomitanza con l’arrivo dei papà nel weekend e veniva immortalata da foto ricordo e disegni di noi bambini.
Se ripenso alle tante estati passate in luoghi più esotici e lontani, posso dire di non aver mai più riprovato lo stesso senso di libertà e spensieratezza che sentii in quegli anni della mia infanzia, dove tutto era una scoperta e un’emozione nuova. La giornata infinita passata ad ascoltare il rumore del torrente, a trovare i sassi più levigati e dalle forme più strane, la luce accecante del letto del fiume, l’ombra rigenerante dei pini, l’odore del muschio nel bosco.
Ci sarebbero state altre estati, ma i miei occhi avrebbero guardato le cose con uno sguardo diverso, non più quello magico di un bambino, ma quello più emotivo di una ragazzina che stava crescendo. Quel paradiso dell’infanzia in comunione con la natura non l’ho più sperimentato, oggi mi piace ricordarlo con voi.
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