“Avanti un altro” di Sabrina Bergamini, pubblicata sul n. 43, è una delle storie vere più apprezzate della settimana. Continuate a votare le vostre storie preferite sulla Pagina Facebook
C’è stato un Tempo in cui mi sono sentita dire FRASI traboccanti d’amore e di PROMESSE e non ho raccolto NIENTE. Allora mi sono affidata al mio TALENTO trascurato: la SCRITTURA. Per poter mettere la parola FINE
Storia vera di Rebecca P. raccolta da Sabrina Bergamini
Intravedo il suo profilo tra le persone che non hanno trovato posto a sedere e sono rimaste in piedi, in fondo alla sala della biblioteca che ospita la presentazione del libro. Il mio libro. La giornalista che mi siede accanto richiama la mia attenzione ponendomi l’ennesima domanda a cui rispondo pronta, con voce ferma e sicura. Sono diventata brava, devo ammetterlo. Io da sempre così introversa ho saputo mettere da parte la timidezza per trasformarmi in un’altra donna con un microfono in mano. Sorrido al pubblico mentre con lo sguardo torno a cercarlo. Magari mi sono sbagliata, magari non è lui. Invece no, non mi sono sbagliata: è proprio lui. Il viso è attraversato dalle stagioni trascorse, le spalle sono un po’ più curve, i capelli più radi. Ma è sempre lui. Il suo sguardo incrocia il mio: è un battito di ciglia, un attimo appena in cui il mondo si ferma. La donna al mio fianco mi pone altre domande strappandomi dai ricordi del passato. Rispondo, sorrido, ammicco ai presenti mentre con la mente sono già oltre.
Ricordo tutto. Ricordo bene. La stanza è in penombra, circondata dal frastuono della città nell’ora di punta. Il sole entra a strisce dalle persiane chiuse. La vita che scorre, quella degli altri, ci arriva a frasi strappate dal vento. Fuori il giorno finisce. Dentro, il letto è sfatto e ancora caldo, i nostri corpi intrecciati non sono ancora stanchi. Luca mi prende il viso tra le mani, mi bacia gli occhi, la punta del naso, le labbra. Spinge la sua lingua contro i miei denti che si aprono per accogliere la sua bocca. Riprende così quella danza silenziosa appena interrotta che ci appartiene, è solo nostra, come nostri sono i respiri che si fondono, come nostri i cuori che battono. Quella danza presto diventa mare in tempesta e noi siamo già naufraghi in quel piacere antico che si rinnova, in viaggio verso la stessa destinazione. Arriva da lontano quel piacere che ci rende schiavi, lento, a occhi chiusi, in solitudine. E poi esplode, occhi negli occhi, lava che ci inonda e ci plasma. Ci sciogliamo lentamente da quell’ intreccio di gambe e braccia per diventare solo parole, carezze, sussulti, promesse. Per sempre tua, per sempre tuo.
Il giorno dopo, seduti in un ristorante vista mare, brinderemo alla fine del nostro amore. Alzeremo i calici verso un cielo di stelle e io avrò voglia di morire.
«Cerca di capire, Luisa è incinta. Sei tu la donna che amo, è con te che vorrei passare tutti i giorni della mia vita, ma è lei che devo sposare. Sei giovane e ti dimenticherai di me in fretta, vedrai che ti scorderai anche il mio nome, un giorno ti sveglierai e nemmeno ti ricorderai il mio viso» mi dirà, senza trovare il coraggio di guardarmi negli occhi. Io mi volterò verso il mare buio della sera.
Acqua a perdita d’occhio. Immensa, limpida distesa, goccia nella goccia. Sentirò la disperazione avanzare come le onde, avrò voglia di tuffarmi in quel nulla e scomparire. Ma ci sono tanti modi per morire e io a ventidue anni già avevo capito che si può sparire, lentamente, senza far rumore. Me lo aveva insegnato bene mio padre che un giorno se n’era andato e non era più tornato. E mia madre non si era uccisa anche se sicuramente avrebbe preferito una fine da tragedia greca invece della vita dura fatta di privazioni e sacrifici che le si prospettava davanti, ma, invece, era semplicemente scivolata verso l’oblio. Giorno dopo giorno, con i suoi silenzi, le sue assenze, i suoi sguardi di rimprovero. Poi era morta davvero. Un attacco di cuore mentre faceva le pulizie a casa di uno dei tanti anziani che accudiva per arrivare alla fine del mese. E io non avevo versato nemmeno una lacrima quando venni raggiunta dalla notizia. Nemmeno una lacrima quando la bara era scesa nella terra umida: le avevo detto addio ogni giorno dall’età di otto anni.
Non si muore mai in un attimo solo. Si muore ogni giorno un po’, almeno, questo era ciò che era accaduto a lei. E io ogni giorno avevo pianto dicendole addio: addio al suo sorriso dai denti bianchi e un po’ imperfetti, addio alla sua voce cristallina che intonava canzonette mentre cucinava l’arrosto per la cena quando ancora eravamo una famiglia, addio alla sua risata argentina, addio a quel gesto lento della mano che si posava sulla mia fronte per misurarmi la febbre quando ero malata, addio a quel modo così dolce di alzare la testa mentre qualcuno le parlava dalla stanza accanto e lei cercava di captare le parole senza bisogno di farsele ripetere. Si era spogliata lentamente della vita che la avvolgeva, giorno dopo giorno, gesto dopo gesto e io avevo pianto per ogni suo passo verso la morte, ma non avevo pianto per la sua dipartita effettiva perché sapevo che con essa aveva raggiunto finalmente la sua meta, la sua pace.
A ventidue anni, sapevo che non sarei mai stata la prima scelta di nessuno, mi sarei dovuta accontentare dell’ombra, di giocare in riserva. Ora Luca me lo dimostrava. Le regole, la vita te le insegna presto, ti assegna il tuo posto nel mondo e tu ti siedi e giochi la tua partita. Io sapevo che le carte che avevo in mano non erano buone ma pazienza. Per un po’ mi ero illusa. Da bambina ero innamorata della mitologia classica, a scuola ero la più brava nei temi in classe.
La maestra diceva che avevo talento naturale per la scrittura. «Da grande voglio fare la giornalista e diventare scrittrice» avevo dichiarato trionfante a mia madre davanti a un piatto di pasta al pomodoro, un giorno come tanti che si trasformò nel giorno in cui vidi per la prima volta le carte della mia malasorte. «Ma davvero? E come pensi di poterti permettere l’università, eh? Tuo padre se ne frega di te. Tuo padre adesso ha un’altra famiglia a cui pensare» aveva risposto lei con un moto di stizza, un tono che voleva essere di accusa. Mio padre, dunque, stava altrove.
Altrove con un’altra donna, un’altra figlia più meritevole di me del suo tempo, dei suoi soldi, del suo affetto. E da allora, l’amore per me fu sempre altrove. Mai tra le braccia di un ragazzo che davvero mi amava, mai tra le pieghe del sorriso di un’amica sincera, mai tra le fusa di un gatto incontrato per caso. Mai. Sempre altrove, sempre in un luogo lontano e impossibile da raggiungere e tanto più impossibile era da raggiungere e tanto più io lo desideravo, perché sapevo di non meritare nulla e allora ecco che dovevo guadagnarmelo e forse solo così lo avrei ottenuto. Poi era arrivato Luca. E naturalmente anche per lui avevo dovuto lottare. Più grande di me di quasi vent’anni, un posto di comando nell’azienda nella quale entrambi lavoravamo e quella capacità unica di illuminare una stanza, di farla vibrare al suo passaggio. Era bastato il suo sguardo che si posava sul mio viso stanco, una fredda mattina di inizio inverno, a farmi cogliere la sfida. Ed erano bastate le sue mani calde ed esperte capaci di fare vibrare il mio corpo come le corde di un violino per la prima volta ben accordate, a farmi innamorare e, cosa ancor peggiore, a farmi sperare e desiderare un futuro insieme. Lui naturalmente era già impegnato, questo me lo disse subito. Gli uomini sono astuti, giocano in difesa come se mettere subito le cose in chiaro li assolvesse dalle sofferenze che ti andranno a infliggere, come se dire la verità bastasse ad assolverli dalle loro colpe. «Non ti posso promettere niente, non voglio illuderti» mi disse dopo aver fatto l’amore per la prima volta insieme nella polverosa camera di un motel. Poi le promesse, contrariamente a quanto detto, erano arrivate. Ma mentre nella sua vita nulla cambiava, la mia esistenza si plasmava a seconda delle sue esigenze. Dissi presto addio agli studi universitari, che faticosamente mi pagavo, perché la sera restavo in ufficio fino a tardi per potergli stare accanto ed esaudire ogni sua richiesta. E poi lui mi ripeteva che non dovevo sprecare energie per un pezzo di carta che non mi sarebbe servito a nulla: quando sarei diventata sua moglie mi sarei dovuta occupare solo di lui e dei figli che avremmo avuto. Nemmeno me ne resi conto e fu il deserto attorno a me. Il sabato sera restavo a casa nel caso si liberasse sul tardi, alle telefonate delle amiche non rispondevo temendo che proprio in quel momento lui mi chiamasse e si arrabbiasse pensando stessi conversando con chissà chi. Era geloso fino allo sfinimento e io ero felice di farmi soffocare da quelle attenzioni che credevo fossero indizio del suo amore.
E poi, all’improvviso, ecco il palesarsi del mio destino bastardo, il dito della malasorte puntato contro ancora una volta. Mi sembrerà di sentire nell’aria profumata di salsedine la voce astiosa di mia madre che con lo stesso tono con cui infranse i miei sogni di bambina mi dice: «Visto che avevo ragione io? Dalla vita avrai solo briciole». Mi volterò verso il mare buio della sera. Acqua a perdita d’occhio. Immensa, limpida distesa, goccia nella goccia. Sentirò la disperazione avanzare come avanzano le onde nella loro perenne danza, avrò voglia di tuffarmi in quel nulla e scomparire. A scomparire, invece, ci impiegherò due anni. Ogni giorno, da quel giorno, scomparirò sempre un po’ di più scivolando dentro a un bicchiere di alcol. Ci sono tanti modi per diventare trasparente, per lasciare il mondo senza far rumore. Un modo vale l’altro. Io avevo scelto quello. Fino a quando, una mattina, mi svegliai in una stanza d’ospedale. La prima cosa che vidi fu il soffitto bianco e pensai con sollievo di essere morta, finalmente. La seconda cosa che vidi mi fece capire che mi sbagliavo. Una donna con il camice bianco seduta ai bordi del letto mi disse che ero uscita miracolosamente illesa da un brutto incidente. «Lei è stata fortunata, mi creda. La vita le sta offrendo un’altra possibilità, non la butti via» aggiunse, guardandomi negli occhi con uno sguardo carico di saggezza, di speranze spezzate, ma sempre pronte a rifiorire. Prima di lasciarmi sola mi allungò un biglietto da visita pregandomi di contattarla. Mi strinse forte la mano. E fu allora che qualcosa dentro di me si spezzò, la barriera che avevo messo tra me e il resto del mondo iniziò a scricchiolare, a fare male.
Due settimane dopo entrai per la prima volta nello studio di questa psicoterapeuta specializzata nel trattamento di dipendenze di vario genere e comparsa nella mia vita come un angelo caduto dal cielo.
Piansi tutta la durata della seduta. Piansi in un’ora tutte le lacrime che non avevo più versato dall’età di otto anni. Lei, seduta davanti a me sembrava una statua di pietra a cui potersi aggrappare in caso di bisogno. Lo sguardo, invece, era lo sguardo carezzevole di una madre in attesa. Attendeva di iniziare il lavoro, quello vero che sarebbe venuto dopo e che sapeva sarebbe stato lungo e travagliato come travagliato è ogni parto, ogni rinascita.
Fu lei a insegnarmi che il destino è una catena che si può spezzare, che il futuro non è che la conseguenza delle nostre azioni e che dalle nostre azioni di oggi dipende la nostra felicità di domani.
Mesi e mesi dopo quando la terapia stava volgendo al termine e la mia vita si stava faticosamente ricomponendo, guardandomi con l’aria di chi conosce già la risposta, mi domandò: «Rebecca ma qual è il tuo vero daimon? A quale talento hai rinunciato per tutto questo tempo?». Io per la prima volta, senza esitazioni, risposi:«La scrittura». Lei sorrise, annuendo. Iniziai a scrivere quella sera stessa, senza mai più smettere. Scrivevo nelle pause di lavoro, a casa, la notte quando non riuscivo a dormire. Scrivevo come se nulla nella vita avesse più importanza di quelle parole che sgorgavano fuori come un fiume in piena. Senza rendermene conto quelle pagine divennero presto un libro che venne pubblicato da una casa editrice, piccola, indipendente, coraggiosa.
L’applauso del pubblico mi strappa bruscamente dai miei più intimi pensieri. La giornalista mi rivolge un sorriso, ha appena concluso la lettura del brano che aveva scelto per l’occasione e adesso invita i lettori a mettersi in fila per l’autografo. In fila, ci si mette anche lui. Quando me lo trovo davanti alzo appena la testa, sono rossa dalla vergogna. Vergogna di cosa poi? Forse lui dovrebbe vergognarsi. In tutti questi anni mai una telefonata, mai un pensiero. Mi porge il libro, sulla prima pagina trovo scritte queste semplici parole: “Ho tanta voglia di te. Ho voglia di rivederti”. Adesso la tentazione è quella di alzarmi in piedi e assestargli uno schiaffo su quel bel viso da fesso. È ancora sposato, ha quattro figli, viviamo in una piccola cittadina, le cose si sanno. Eppure è qui. Come se nulla fosse. Cos’amavo di lui? È una domanda che non trova risposta, non ho nemmeno interesse a cercarla. Noi donne quando non ci vogliamo abbastanza bene, quando non crediamo nelle nostre potenzialità, pensiamo di non essere abbastanza per gli uomini che amiamo. Ma ecco che appena impariamo ad amarci nonostante tutto, ad accettare i nostri limiti, a prenderci cura di noi stesse, le carte si rovesciano e ci accorgiamo che sono loro, i nostri uomini, a non essere abbastanza per noi. Si smette di cercare storie sbagliate, si comprende con sorpresa che esse non arrivano per “caso” ma per meccanismi disfunzionali ben radicati.
Mi guardo attorno, mio marito mi sorride da lontano. All’improvviso ho una gran fretta di tornare a casa, di tornare dalla mia famiglia, scendere dal tacco dodici, sfilarmi il tailleur, infilarmi il pigiama e giocare con mia figlia per ore e ore.
Abbasso lo sguardo, scrivo a grandi e chiare lettere: “E io invece no”. Avanti un altro.
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