“Un assaggio di felicità” di Roberta Giudetti, pubblicata sul n. 47 di Confidenze, e la storia più apprezzata della settimana sulla nostra pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog
Non sono stata fortunata in AMORE: ho collezionato SBAGLI tanto gravi che mi sono AMMALATA. Mi ha salvato una PASSIONE segnata da un destino inesorabile. Ma così INTENSA da bastare per sempre
Storia vera di Loretta T. Raccolta da Roberta Giudetti
Apro gli occhi e la luce che entra dalla porta finestra è abbagliante. Ieri sera, dalla fretta, mi sono scordata di tirare la tenda. Mi guardo attorno, respiro piano: tutto è perfetto e al posto giusto in questa stanza. Ho sognato di trascorrere una notte come questa per molto tempo e ora sono qui.
Qui, accoccolata accanto all’unico vero uomo che abbia mai conosciuto in cinquant’anni di vita. Sorrido e penso che ce ne ho messo di tempo per essere felice. Appena fuori da questi vetri, a due passi da noi, un mare blu cobalto ci saluta dolcemente. Più tardi andremo a scaldarci in spiaggia, forse. O forse ce ne staremo tutto il giorno qui a letto, sotto queste tiepide lenzuola. Sergio dorme ancora, gli accarezzo piano i capelli, gli occhi, le labbra. Appoggio il capo sul suo torace, ascolto il suo cuore battere. Mi sento invadere da una gioia immensa, un senso di gratitudine che non avevo mai provato.
Non credevo che la prima notte di nozze potesse essere così. Ci siamo amati come se fosse la prima e ultima volta. Entrambi sappiamo che potrebbe essere così, ma questo non mi fa paura. Amare Sergio ed essere amata da lui, è per me il dono più grande che la vita mi abbia fatto, dopo i miei figli. Sento di essere sul punto di piangere ma resisto.
Ho conosciuto Sergio sei anni fa, grazie a un’amica che mi stava aiutando a trovare lavoro come badante. Mi sono presentata al colloquio con sua sorella carica di ansia e di aspettative perché avevo assolutamente bisogno di quel lavoro. Non avevo idea di chi avrei dovuto assistere ventiquattro ore al giorno, ma era l’unico impiego che avevo trovato dopo mesi in cui avevo provato di tutto. Non mi importava se era faticoso, impegnativo, stressante perché ero disposta a tutto.
Avevo già fatto la badante a una persona anziana per circa un anno e sapevo bene quanto può assorbirti un lavoro così. Non ero un’infermiera specializzata ma ero una persona molto paziente, ed è questo che stavano cercando. Una persona paziente con tutta la giornata a disposizione. Non era un problema per me, perché non avevo nessuno da cui tornare. Mi preoccupava solo il fatto che la persona da assistere fosse un uomo. E non sono mai stata fortunata con gli uomini.
A ventidue anni sono rimasta incinta con Fabrizio, il mio fidanzato. Non eravamo proprio ragazzini, ma non eravamo nemmeno abbastanza maturi per affrontare l’esperienza di diventare genitori. Spinti comunque da un irrefrenabile entusiasmo e da una notevole dose di incoscienza, abbiamo deciso di tenere il bambino. I problemi sono sorti quando Sam è nato. Nessuno dei due voleva rinunciare alla propria vita. Volevamo ancora vedere gli amici, andare a ballare, bere shottini e birra fino alle quattro di notte, dormire fino a mezzogiorno la domenica. Amavamo Sam ma non eravamo in grado di crescerlo. Fabrizio mi ha lasciata quando nostro figlio ha compiuto due anni: è partito per un viaggio in Europa e si è fermato a vivere a Londra. Dopo qualche mese, in cui sono andata fuori di testa, Sam è andato a stare con la nonna, la mamma di Fabri. Mi sono iscritta a una scuola serale, visto che non avevo mai terminato gli studi superiori, e mi sono trovata un lavoro come cameriera.
Vedevo Sam ogni volta che potevo, anche se mi rendevo conto che stava crescendo senza un padre né una madre, ma ero convinta che stesse meglio senza di me. Quando Sam è cresciuto, abbiamo cercato di ristabilire un rapporto più stretto, ma non è mai stato facile fra noi. Nel frattempo avevo conosciuto Antonio, un fulmine a ciel sereno. Ero sicura che non avrei mai più perso la testa, che dopo la batosta di Fabri sarei stata lontana dagli uomini e dalle storie che ti fanno perdere il controllo, invece mi sono follemente innamorata di lui. Ero una donna di trent’anni ormai, pronta per una relazione matura. Antonio avrebbe voluto sposarmi, diceva, ma non aveva ancora ottenuto il divorzio dalla sua ex moglie. Era separato da due anni, senza figli. La nostra è stata una passione travolgente. Dopo solo tre mesi insieme, abbiamo cercato casa. Antonio ha comprato per noi uno splendido nido d’amore. Dopo poco, sono rimasta incinta di Alessia. Eravamo felici. Io ero felice. Avrei potuto vivere la maternità in modo completamente diverso rispetto a quando era nato Sam. Non ero più una ragazza e Antonio era un uomo affettuoso, serio, affidabile.
Aveva un lavoro stabile come contabile. Adorava i bambini e non vedeva l’ora di essere padre. Ancora non poteva sposarmi ma per me non era un problema.
La nascita di Alessia è stata una gran gioia. Nulla faceva prevedere che da lì a poco tutto sarebbe cambiato.
Quando Alessia aveva poco più di un anno, Antonio è sparito. Da un giorno all’altro. Mi ha chiamata da un aeroporto salutando me e la bambina al volo, dicendo che aveva un affare importantissimo e improrogabile all’estero. Avevo provato timidamente a chiedere: «All’estero dove?», ma lui era letteralmente scappato.
Una fredda mattina di gennaio, mi sono ritrovata la polizia in casa: stavano cercando il signor Antonio C. per rispondere del reato di spaccio di droga e associazione a delinquere. «No guardi, vi state sbagliando. Si tratta di un caso di omonimia», avevo risposto, serafica. Brandendo un mandato, noncuranti della bambina che piangeva, avevano perquisito tutta la casa. Avevano trovato, in fondo all’armadio, un portatile che avevano sequestrato e poi ci avevano gentilmente invitate a lasciare l’appartamento per seguirli in questura. Vagavo incredula con Alessia in braccio, scuotendo la testa. Continuavo a ripetere che c’era un errore. Un macroscopico errore. Domande su domande su domande. Nessuno sembrava credere alla mia totale estraneità ai fatti.
Alla fine degli interrogatori, però, una cosa l’avevo chiarita: ero una deficiente. Non avevo capito nulla dell’uomo che mi viveva accanto da due anni. Il mio adorato Antonio, il padre di mia figlia, era un delinquente. Nonostante davvero non sapessi nulla, attraverso alcuni collegamenti, sono riuscita ad aiutarli e lo hanno preso.
Ovviamente, io e Alessia abbiamo dovuto lasciare la nostra casa e così siamo andate a vivere da mia madre. Gli anni più duri e umilianti della mia vita. Ero diventata trasparente. Non avevo più amici. Mi vergognavo come se la delinquente fossi io. Per qualche mese avevamo inventato, con parenti e amici, la scusa che Antonio era in viaggio per lavoro in Germania. Ma dopo oltre un anno che ancora non era tornato, tutti avevano capito che c’era qualcosa che non andava. Soprattutto la bambina. Avevo permesso ad Antonio di chiamarci dal carcere una volta alla settimana, di parlare con sua figlia, ma Alessia non capiva perché papà non potesse tornare dalla Germania nemmeno per Natale.
Con il passare degli anni, abbiamo dovuto, insieme a una psicologa, raccontarle la verità. Ho dovuto accompagnare in carcere la bambina, che nel frattempo era diventata una ragazzina, per far visita al padre. La mia vita era un disastro. Io ero un disastro. Ero totalmente incapace di giudicare il prossimo, di riconoscere le brave persone dagli imbroglioni. Antonio mi aveva ingannata per anni e io non mi ero accorta di nulla.
Alla fine mi sono ammalata. Non fosse stato per mia madre e mia zia, che mi hanno aiutata a crescere Alessia, oggi non sarei qui. Ogni giorno pensavo solo a come farmi fuori. Andavo avanti a furia di psicofarmaci che attutivano ogni mia emozione. Anche per questo ho sopportato la notizia che Sam aveva deciso di andare a vivere con suo padre. Avevo totalmente fallito con mio figlio, non avrei fatto lo stesso con Alessia. Non avrei permesso ad Antonio di rovinarmi la vita come aveva fatto Fabrizio. Che poi, sapevo perfettamente di essere io la vera causa di ogni mio male. Io che non sapevo reagire. Io che non ero in grado di badare a me stessa e ai miei figli. Che mi appoggiavo sempre a qualcuno. Che pur di non vedere la realtà, mi tappavo occhi, orecchie e cuore e fingevo che tutto andasse bene.
Ma a quarantasei anni, due figli grandi di cui uno si accontentava di sentirmi al telefono, un lungo elenco di fallimenti alle spalle, non potevo permettermi di sbagliare ancora e soprattutto di continuare a vivere come un’adolescente: dovevo crescere.
Per questo, quel giorno di sei anni fa, sono arrivata a quel colloquio determinata come non lo ero stata mai. Mia zia mi dice sempre che posso truccarmi quanto voglio ma le mie rughe di espressione parlano del mio dolore, dei miei errori, dei miei vuoti. Quel giorno ho deciso di non truccarmi. Di essere me stessa. Non ho negato nulla, ho raccontato tutto alla sorella di Sergio. Della mia vita passata, del padre di Alessia che era da poco uscito di prigione, della mia depressione, della dipendenza da psicofarmaci, dell’uscita dal tunnel e anche della mia voglia di riscatto. Di dimostrare a me stessa e ai miei cari che non ero da buttare via.
La sorella di Sergio è rimasta molto colpita dalla mia sincerità e ha fatto entrare il fratello. Non pensavo fosse un uomo ancora giovane. Sapevo solo che era stato colpito da una malattia neurodegenerativa e che era costretto su una sedia a rotelle. Aveva lo sguardo di chi è ormai rassegnato e allo stesso tempo di chi ha lottato contro una rabbia più grande di lui per molti anni. E il sorriso spento di chi è stanco di lottare.
Credo di essermene innamorata al primo sguardo, ma questo l’ho capito tempo dopo. Laura, la sorella di Sergio, mi aveva spiegato che tutto era iniziato con una caduta dalle scale della metropolitana. Sergio, architetto cinquantenne di successo, sempre di fretta, non aveva dato peso al fatto che gli era ceduto il piede destro. Nemmeno l’ortopedico aveva pensato alla possibilità che ci fosse un problema neurologico. Solo la fisioterapista dopo qualche mese aveva mosso qualche dubbio. Sergio non era mai stato uno che si lasciava suggestionare, ma quella volta, aveva avuto una brutta percezione. Sentiva che il suo corpo non rispondeva più come prima. Una stanchezza eccessiva, non giustificabile dal suo ritmo di vita che era sempre stato intenso.
Quando una mattina ha dovuto rifare un progetto più volte perché non riusciva a tracciare neanche una linea decente, dieci minuti dopo aveva già prenotato una visita neurologica. La diagnosi era stata fin troppo rapida: sclerosi laterale amiotrofica. Nel giro di qualche anno, Sergio, nonostante le cure, non è stato più in grado di essere autosufficiente. Quando l’ho conosciuto, non aveva ancora perso la capacità di parlare, ed era lucidissimo. Questa malattia infame, “la bastarda” come la chiamava lui, attacca tutti i tuoi muscoli ma ti lascia sadicamente consapevole fino alla fine. Sergio poi parlava con lo sguardo e si aiutava con un tablet particolare. Aveva reso il suo appartamento più accessibile grazie alla domotica, ma ora aveva bisogno di una persona che si occupasse di lui. Che gli tenesse compagnia. Conoscere Sergio e amarlo è stata la stessa cosa, ma mai avrei immaginato che anche lui potesse provare, col tempo, gli stessi sentimenti per una come me. Ci siamo innamorati. Dopo due anni in cui abbiamo condiviso ogni alba e ogni tramonto, dopo due anni in cui io ho parlato, riso e pianto per tutti e due, lui mi ha chiesto di sposarlo. Non avevo mai provato una gioia e un dolore così profondi. Sapere di appartenere finalmente a qualcuno e allo stesso tempo essere consapevoli che questa persona non potrà stare con te se non per un brevissimo attimo di eternità, è devastante. E questo accade sempre, lo so.
A me poi era già accaduto di credere di essere felice. Ma questa volta, Sergio avrebbe dovuto essere il mio “per sempre”. Non avrei più amato nessuno dopo di lui.
Con l’aiuto di sua sorella, Sergio ha organizzato una romantica cena in terrazza. Non mi ha fatto mancare nulla: la musica, le rose rosse, la luce soffusa delle candele. Un anello da favola che mai avrei immaginato di ricevere in vita mia. Il nostro primo bacio è stato magico e strano. Anche questa gioia gli aveva tolto questa malattia, la magia di poter baciare la propria compagna. Eppure per me era stato meraviglioso. Un breve assaggio di felicità.
Ci siamo sposati tre mesi dopo. Sam non ha potuto essere presente ma Alessia e la sorella di Sergio sono state le mie damigelle. Siamo partiti per il viaggio di nozze felici come due ragazzini. Sergio mi ha portato in camera seduta sulle sue gambe, sulla sua super sedia a rotelle.
Ci siamo amati in modo diverso. L’esperienza più intensa, appagante e al tempo stesso dolorosa della mia vita. Leggere nel suo sguardo tutto quello che avrebbe voluto fare, convincerlo silenziosamente con le mie carezze e i miei baci che ero felice così, che non avrei potuto esserlo di più, non è stato semplice.
«Ero come morta, e tu mi hai ridato la gioia di vivere. Per la prima volta nella mia vita sono felice».
Insieme abbiamo trascorso tre anni speciali, difficili da definire: l’amore può spaccare il cuore in molti modi diversi. Negli ultimi mesi di vita, Sergio non parlava più. Non sorrideva più. Lo nutrivo con il sondino. Sapevo che era questo il suo destino e accompagnarlo è stato un dolore immenso ma anche un grande onore.
È mancato sei mesi fa, a sessantadue anni. Nel suo testamento, d’accordo con la sorella, senza che ne sapessi nulla, mi ha nominata unica erede.
Ho una bella casa ora, dove vivere con mia figlia e dove persino Sam è venuto a trovarmi per passare qualche settimana con la sorella e con me. Il tempo in cui ho potuto assaporare la felicità e la vera comunione con un uomo è stato molto breve, ma mi basterà per il resto dei miei giorni. La cosa più importante che mi ha donato Sergio è stata la fiducia in me stessa. È stata la stima, la voglia di vivere, di non arrendermi.
Il vuoto che ha lasciato in me è incolmabile. Trattengo nel mio cuore e sulla mia pelle ogni istante trascorso con lui, ogni lacrima e ogni sguardo. Ogni insegnamento. Lo amerò per sempre.
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