“Diventare madre” di Mariella Loi, pubblicata sul n. 49 di Confidenze, è la storia più votata della settimana sulla pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog
Mettere al mondo un figlio può sembrare la cosa più naturale del mondo, ma ogni scelta è frutto di un percorso di sofferenza e crescita, errori dovuti all’inesperienza e paura di non essere all’altezza. Lo dimostra la mia vicenda
Storia vera di Elisa V. raccolta da Mariella Loi
Da ragazza amavo molto l’estate, le giornate passate in spiaggia, i tornei di beach volley, le serate con la chitarra intorno a falò improvvisati, mangiando quintali di anguria.
Sarà che gli anni ‘80 sono stati un periodo spensierato, soprattutto per chi come me aveva la fortuna di vivere sulla riviera romagnola, dove la stagione estiva durava sei mesi. Le mie vacanze iniziavano sempre molto presto, con l’albergo dei miei genitori che si apriva a Pasqua e finivano del tutto solo a ottobre, quando partiti anche i turisti stranieri, ci rassegnavamo a mettere via gli ultimi ombrelloni. Era così da sempre, un rituale che si ripeteva uguale tutti gli anni.
Per questo l’anno della Maturità, io e la mia amica Laura avevamo deciso di fare qualcosa di diverso e come regalo di diploma avevamo chiesto ai nostri genitori il biglietto dell’Interrail.
L’idea l’aveva avuta Laura e il suo entusiasmo aveva finito per contagiare anche me che agli inizi ero titubante, perché mi dispiaceva lasciare a casa Luca, il mio ragazzo da qualche mese. Poi, le cose con lui non erano andate per il verso giusto e quando una sera lo vidi in discoteca baciare un’altra, mi fu chiaro che la nostra storia era finita.
Per qualche giorno piansi di nascosto, poi dissi a Laura che per il viaggio poteva contare su di me.
Sostenuti gli esami, non avevamo neanche aspettato di conoscerne l’esito e, inforcato lo zaino pesantissimo, eravamo partite alla volta di Milano, dove ci attendeva il primo treno con destinazione Parigi. Poi sarebbe stata la volta di Londra, Edimburgo, Berlino che all’epoca era ancora divisa in due dal muro.
Fu un mese molto bello, un’esperienza di libertà inimmaginabile che mi lasciò addosso un grande entusiasmo. Il mondo mi crollò addosso al mio rientro, quando a fronte di un ritardo prolungato del ciclo, feci un test di gravidanza che mi rivelò che ero incinta.
La prima reazione fu di estrema incredulità, mi sembrò tutto talmente assurdo che pensai a un errore, ma poi davanti al ritardo che persisteva, ne parlai con Laura e da quel momento fu lei a prendere in mano la situazione.
La ginecologa del consultorio confermò il mio stato di gravidanza e quando davanti alle sue domande sul padre del bambino, io risposi che non stavamo più insieme, lei mi fissò un colloquio con la psicologa. Non andò meglio con quest’ultima che, dopo aver compilato una scheda, mi informò della possibilità di poter ricorrere all’IVG, una sigla che non conoscevo e di cui solo in quel frangente scoprii il significato.
«Interruzione volontaria di gravidanza, mi sembra la soluzione migliore nel suo caso, considerato che a un figlio avrebbe ben poco da offrire, neanche un padre». L’idea di coinvolgere Luca in quel che mi stava accadendo non mi sfiorava minimamente, eppure quella frase maldestra, non esente da giudizio, m’investì come una sferzata in pieno volto. Uscii dal colloquio disgustata e, a parte la vicinanza di Laura che non mi lasciò mai sola, mi sentii in balia dell’angoscia opprimente che mi attanagliava. I miei genitori non si accorsero di nulla, eravamo nel pieno della stagione e lavoravano anche dodici ore al giorno, fu facile per me sfuggire al loro sguardo indagatore. Preferii tacere e una settimana dopo tornai al consultorio per dire che avevo deciso di abortire. Mi chiamarono dall’ospedale di Cesena in tempi brevissimi, ai miei raccontai che io e Laura saremmo state via qualche giorno, ospiti di un’amica a Bologna, dove andavamo a informarcii per l’iscrizione all’università.
La mattina dell’intervento avevo una gran paura e a poco valsero le rassicurazioni del medico di turno che mi disse di non preoccuparmi, perché tra poco sarebbe finito tutto. Io finsi di crederci, la realtà è che mi mandarono a casa due giorni dopo, dolorante nel fisico e nell’anima e con le prime avvisaglie di un senso di vuoto che mi sarei portata dietro a lungo.
Non te lo dice nessuno prima, che la vera sofferenza comincia soltanto dopo, a decorso clinico concluso, quando la vita dovrebbe riprendere i binari di un’esistenza normale, fatta di studio, uscite, amici. Quella che era la tua vita di prima e che dopo non riconosci più, perché qualcosa dentro di te è cambiato per sempre e non puoi fare come se non fosse accaduto.
Laura mi rimase sempre vicina nei mesi successivi, muta testimone dei miei silenzi e dei miei sbalzi d’umore, poi anche lei sentì il bisogno di allontanarsi da me. Non gliene feci una colpa, pensai che fosse la cosa migliore per entrambe e dopo il primo periodo di smarrimento, cominciai a reagire.
L’estate era ormai finita, mi iscrissi all’università dove intrecciai nuovi legami, io e Laura ci perdemmo di vista e finì così anche con Luca e altri amici. Dopo la laurea, cominciai a lavorare nell’albergo dei miei genitori e dopo qualche anno sposai Fabrizio.
Il primo segnale di malessere lo avvertii quando Fabrizio cominciò a paventare la possibilità di avere un figlio. Ricacciai indietro l’ansia con una punta di fastidio, con mio marito temporeggiai aggrappandomi a scuse inesistenti e per tutto il periodo successivo evitai di ritornare sull’argomento. A Fabrizio non avevo mai raccontato del mio aborto, era passato molto tempo e non avevo nessuna voglia di riportare alla luce quel frammento del mio passato. Qualche mese dopo però rimasi incinta e alla notizia della gravidanza fui presa dal panico, cominciai a soffrire di claustrofobia e un forte senso di inadeguatezza si impadronì della mia vita. L’idea di diventare madre mi terrorizzava e dal passato mi ritornava indietro l’insinuazione rivoltami anni prima dalla psicologa, di non avere nulla da offrire a un figlio. Prigioniera dei miei demoni, temevo di impazzire, decisi allora di chiedere aiuto e quando lo feci, furono tanti i nodi da sciogliere. La mia psicoterapia durò quasi cinque anni, tanti ce ne vollero per rimettere ordine nella mia testa e fare pace con il passato. Che è spesso costellato di errori legati all’inesperienza e di modelli di perfezione che poco hanno a che fare con la vita vera, fatta di cadute, ginocchia sbucciate e cerotti salvifici. Oggi sono una madre serena e mio figlio che ha 22 anni è per me il bene più prezioso.
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