“Il Natale dei Pazzi” di Giovanna Sica, pubblicata sul n. 52 di Confidenze, è la storia più apprezzata della settimana. Ve la riproponiamo sul blog
Baldo e gli altri iniziavano a fantasticare a novembre. Il sogno di tutti era passare le feste fuori dall’istituto, con le persone care. Ma per molti non era così. Ripenso a loro con amore e gratitudine
Storia vera di Monica T. raccolta da Giovanna Sica
“Vuoi vedere che pure questo Natale mia suocera pretende che andiamo da lei?” scrive Loredana nella chat di gruppo che condividiamo io, lei ed Enza. “E che dovrei dire io? I parenti si presentano ogni anno a casa mia per le feste” le fa eco l’altra mia amica. “E tu Monica con chi passerai il Natale?” mi interrogano le due donne con cui sono cresciuta. “Io non lo so con chi passerò il Natale. Come ben sapete nella città in cui vivo ora non ho familiari e nemmeno amici. Però posso dirvi con certezza con chi vorrei aspettare la nascita di Gesù Bambino”. “Con chi?” s’affretta a digitare sulla tastiera dello smartphone Enza. “Con i miei amici pazzi”.
Quando mi assunsero come infermiera con contratto a tempo indeterminato in una struttura per malati psichiatrici, non stappai certo una bottiglia per brindare. Ero molto preoccupata. Avevo paura di non essere all’altezza. E poi temevo che lì dentro avrei visto sofferenze che non sarei stata più capace di dimenticare. Facce che mi avrebbero cambiata. Ed è così che è andata. Dentro la casa dei pazzi io ho conosciuto persone e un altro modo di stare al mondo che mi sono entrati fin dentro l’anima, che mi hanno stravolta, ma non come temevo io, magari incupendomi. No, i matti mi hanno cambiata in meglio, arricchendomi, insegnandomi cose che non avrei mai potuto imparare dalle persone cosiddette normali. Per quanto riguarda invece la paura di non essere all’altezza, mi ero sbagliata. Io ero in grado di… Io ero nata per… Io avevo una forza nelle mie braccia che non conoscevo. E un cuore coraggioso che se ne infischiava dei buoni consigli dei colleghi. «Non ti fermare nel parcheggio con Susetta, è violenta. Una volta ha cercato di strappare un orecchio a un operatore che le aveva negato una sigaretta». «Grazie dell’avvertimento, ma qui tutti sanno che io non fumo». «Non dare confidenza a Michelangelo se no poi cerca di palpeggiarti». «Sono troppo secca per suscitare pensieri erotici». Ho lavorato per nove anni a Casa P. e a ogni fine turno, quando la trovavo nei paraggi della mia macchina, mi fermavo qualche minuto con Susetta: voleva sapere di Lulù, la mia cagnolina, e non fu mai aggressiva con me. E Michelangelo era solo un farfallone: faceva la corte a tutte le infermiere carine, ma era un gentiluomo d’altri tempi, altro che palpeggiatore. Fingeva di non ricordarsi il mio nome, come se fosse sempre la prima volta che mi vedeva. Una mattina che gli stavo mettendo una flebo ammise: «Monica, certo che ti riconosco. Anche se non sono proprio sano di mente, come potrebbe un uomo scordarsi di te? Ma tu ogni giorno che passa diventi più bella e allora ogni volta che ti vedo mi sembra sempre la prima». Un gentiluomo, l’ho detto. Un pomeriggio che ero in cucina a preparare i frullati, lui si intrufolò dentro. «Monica, non stai bene? Sono qui da mezz’ora e non mi hai fatto nemmeno un sorriso». «Sono triste, Michi». «Tu non devi essere mai triste. Non è giusto». Ogni anno, a novembre, gli ospiti di Casa P., almeno quelli che se la passavano meglio e che erano lucidi in tutto o in parte, cominciavano a fantasticare sul Natale. Il sogno comune era quello che qualcuno li venisse a prendere. Sognavano che si palesasse la mamma, anche quelli che non l’avevano più. Oppure un fratello, una nipote, qualcuno che desiderasse tenerli un po’ con sé. Un familiare che avesse scritto il loro nome su un segnaposto. C’erano quelli fortunati, con parenti che li portavano fuori dalla struttura per l’intero periodo delle feste, e poi c’erano gli invisibili che restavano ad aspettare invano davanti a una finestra. Come Baldo. Che tenerezza, Baldo. A ripensarlo ora mi viene da piangere: camminava con il passo lento, quasi trascinando i piedi; gli occhi sempre spalancati più di quello che si conviene; la risata sgangherata. E poi la tristezza che si manifestava sul suo viso quando si sentiva solo e non voleva esserlo. Era sempre in giro per la sala grande durante l’orario di visita, aspettava disperatamente i fratelli e la mamma; mi aveva detto che ce l’aveva la mamma e si chiamava Lina, ma forse si era scordata di questo figlio strampalato. E si erano dimenticati di lui anche i suoi fratelli e le sue sorelle: lui mi elencava le loro caratteristiche fisiche e caratteriali e forse se le inventava. Baldo era troppo buono per capire che i suoi parenti non sarebbero venuti mai più.
Lui li aspettò fino alla fine. Anche nel periodo brutto della malattia, anche quando non si alzava più dal letto, sperava ancora di vederli apparire sull’uscio della sua stanza. Nel 2009 stava arrivando l’ennesimo Natale che Baldo avrebbe passato nella struttura. «Monica, vorrei anch’io per una volta essere nel cuore di qualcuno. Vorrei che una persona andasse a scegliere un regalo per me, questo Natale. Desidero un pacchetto luccicante, da scartare la sera della vigilia» mi confidò. Senza pensarci un attimo, fingendo di non sapere che non si possono fare doni ai ricoverati, io gli risposi: «Baldo, tu sei nel mio cuore. Andrò io a comprarti il regalo che desideri. Dimmi cosa vuoi». Fece una faccia stupita, Baldo. Stupita e felice. Gli occhi gli uscirono ancor più del solito dalle orbite. «Vorrei un maglione, ma non uno qualsiasi: vorrei un cardigan con i bottoncini e mi piacerebbe rosso perché a Natale è bello indossare qualcosa di rosso». «Baldo, questo Natale tu avrai il tuo cardigan rosso, te lo prometto, dovessi girare cento negozi». Quando la vigilia di quel Natale 2009 Baldo mi vide arrivare da lui con una busta luccicante in mano, tirò fuori un sorriso che annullò ogni traccia di dolore stampata sul suo volto. Non ero neanche di turno, quel 24 dicembre, ma ci tenevo a dargli il suo regalo in tempo. Così mi recai nella struttura con la scusa di scambiare gli auguri con i colleghi, ma non era per loro che ero andata lì. Io ero lì per Baldo e per gli altri invisibili, per i miei amici. Per portargli le caramelle, donargli un sorriso, abbracciarli a uno a uno. Per sussurrargli: «Buon Natale». Baldo fu felicissimo del mio dono. Ero riuscita a scovare proprio il maglione che lui sognava. «Come hai fatto?» mi chiese. «Ti conosco più di quello che credi» gli assicurai e lui mi rispose: «Lo sai, non esco da qui e poi non ho monete d’oro, ma ti ho fatto anch’io un pensierino» e mi mise in mano un biglietto con un angelo. Dentro c’era scritto: “Speriamo che fai le scelte giuste per una vita meravigliosa”. Baldo è morto l’anno scorso a novembre, non ha fatto in tempo a vedere un nuovo Natale, a illudersi per l’ultima volta che quella famiglia tanto attesa sarebbe andata a prenderlo. Mi sono chiesta tante volte come ci si può dimenticare di un essere tanto speciale. Se questi fratelli e queste sorelle, se questa madre immaginassero quanto lui bramava riabbracciarli. Come ci si può dimenticare del sangue del tuo sangue? Che poi Baldo non era matto proprio per niente, anzi erano stati proprio tutti gli anni in manicomio e poi in varie strutture psichiatriche a compromettere la sua salute mentale. Era stato internato da giovane, mi raccontarono. Baldo era figlio di gente povera e ignorante con prole numerosa. Quando il ragazzo diede segni di squilibrio, la famiglia si rivolse al prete per vedere se era indemoniato; dopo che l’esorcista disse che non poteva nulla, conclusero che bisognava portarlo al manicomio. Era solo un giovanotto strano. Oggi se la sarebbe cavata con alcune sedute dallo psicologo e una terapia di antidepressivi. Cinquant’anni fa lo dichiararono pazzo e gli rubarono la vita, la dignità, i sogni. Tutto gli portarono via: la possibilità di amare e di essere amato, l’eventualità di condurre una vita normale. Chissà a quanti come lui. A volte mi sembra di sentirli strillare nei miei sogni. Tutti i pazzi del mondo. Che pazzi non erano. Perché i pazzi siamo noi che abbiamo perso di vista le cose che contano, le più semplici, quelle che fanno onore alla vita. E invece, i miei amici rinchiusi a Casa P. sapevano essere felici con poco. Sapevano aspettare. Se ti chiedevano una cosa, non pretendevano che tu gliela portassi il giorno dopo. Aspettavano pazientemente. Come Carmelina. Un giorno di ottobre mi chiese una caramella. Io non ne avevo. Le promisi che gliele avrei portate il giorno dopo. «Portami le caramelle il 5 dicembre, è il mio compleanno». «Ma ci vuole ancora un sacco di tempo per il 5 dicembre. Non vuoi che te le porti domani?». «No, preferisco aspettare il giorno del mio compleanno, le tue caramelle saranno il regalo per me».
Il secondo anno che lavoravo a Casa P. vidi nascere un amore: i miei occhi si deliziavano della tenerezza che passava fra Andrea e Rosa. Lui alto, allampanato, con un accento romano che non aveva perso neanche dopo tanti anni di reclusione; lei piccolina, cicciottella, curata, coi capelli ricci. In una struttura psichiatrica basta poco per innamorarsi. Basta una cosa che fuori di lì non avresti mai considerata. Ad Andrea bastò raccogliere un fiorellino dal prato del giardino e metterlo in mano a Rosa. Lei me lo raccontò come se fosse stato un gesto epico, eroico. Come solo una bambina avrebbe fatto. E così si fidanzarono. Rosa scendeva ogni mattina in cucina per sgraffignare un caffè da portare in camera al suo innamorato. Non si poteva fare, i ricoverati fanno colazione nel refettorio, ma al diavolo le regole: tutti noi operatori sapevamo del loro amore e chiudevamo un occhio, a volte tutti e due. Durante le festività natalizie, Rosa faceva dei lavoretti stupendi che poi esponeva nella sala grande. «Così è Natale anche per noi che restiamo qui» rifletteva tristemente. La sua tristezza diventava ancora più grande quando partiva Andrea. Sì, Andrea partiva. La sorella veniva a prenderlo e lo ospitava a casa sua per quindici giorni. Rosa, invece, non veniva a cercarla mai nessuno. «Monica, sono spezzato in due: da una parte vorrei passare il Natale con la mia fidanzata, ma dall’altra desidero tanto uscire da qui. Vedere i miei nipoti, passeggiare per le vie del mio paese. Mi salutano tutti quando torno, sai. C’è il mare al mio paese. Che darei per farlo vedere anche a Rosa, quel mare bellissimo, e per farle assaggiare la lasagna che cucina Maria, mia sorella. Ma mio cognato non la vuole a casa sua, dice che è già tanto se permette a mia sorella di prendere me. Secondo te che devo fare?». «Devi andare, Andrea. Rosa capirà. Non puoi privarti degli unici giorni di vita normale che ti vengono offerti. Vai e goditi la lasagna e il mare. Poi, quando tornerai, racconterai tutto alla tua morosa e a lei sembrerà di esser stata a guardare quel mare abbracciata a te». Andrea fece cenno di sì con la testa. Aveva gli occhi lucidi e le spalle curve. A Casa P. tutti i ricoverati avevano le spalle curve. Ogni anno di più. Non era il normale ingobbimento del tempo che passa, no, era il dolore del tempo che non è mai passato, delle cose che non avevano mai vissuto dentro la loro esistenza di carta che gliela potevi strappare via di dosso in ogni momento. Le loro spalle curve erano le lacrime che non avevano mai pianto. La rassegnazione che gli era scivolata giù dalla testa per non impazzire e che aveva franato su quelle spallucce troppo piccole per poterne reggere il peso. Una delle ultime sere che ho lavorato lì, la macchina non mi partiva. Erano da poco passate le venti, mi trovavo nel parcheggio da sola e la mia vecchia Panda non ne voleva sapere di fare il suo dovere. All’improvviso si materializzò una figura scura davanti al parabrezza e mi fece pure spaventare parecchio. Era Ludovico, aveva sentito che trafficavo invano con l’accensione e si era precipitato giù per la scala esterna, in pigiama e col freddo, per correre in mio aiuto. «Ludovico, sai che non puoi uscire dalla stanza a quest’ora e poi fa freddo, vai, non ti preoccupare, se proprio la macchina non vuol partire la lascio qui e mi faccio venire a prendere». «Se vuoi spingo». «Ma no! Non ti dar pensiero per me, ora provo a riaccenderla se no chiamo mio marito e mi faccio venire a prendere». «Sì, perché a te basta una chiamata e ti vengono a prendere». Silenzio. Ancora lui: «Monica, ma secondo te, quando questa vita finisce, c’è possibilità di nascere di nuovo?». «Secondo me sì. E tu la prossima volta nascerai dentro una vita bellissima, te la meriti». «Ci sono tante cose che vorrei fare, ma ormai ho 62 anni e qui, lo sai, è difficile vivere come voi là fuori. Però se tu mi dici che c’è un’altra vita, io sono felice. Io aspetto. Io non mi stanco di aspettare».
Non ebbi il coraggio di inventare più niente. Con tutta la forza che avevo in petto trattenni le lacrime e il dolore per la bugia che avevo appena confezionato e messo in mano a Ludovico. Lui forse capì tutto perché accennò un sorriso malinconico e aggiunse: «Comunque, Monica, non ti preoccupare, pure se non ci fosse un’altra vita, non è mica colpa tua». Girò le spalle e se ne andò. Volevo rassicurare Ludovico e invece fu lui a rassicurare me. Volevo prendermi cura dei pazzi e invece sono stati loro a prendersi cura di me. A darmi lezioni di dignità, di amore, di come si può attraversare la vita in tanti modi. Di come, anche se hai subito un’ingiustizia grande quanto il mondo, puoi scegliere comunque di trovare un modo per andare avanti anziché bestemmiare tutto il giorno. Nove anni nella casa dei pazzi. Nove Natali in mezzo a loro. In mezzo a quelli che restavano, che non reclamava nessuno. Poi mio marito è stato trasferito e io ho dovuto lasciare il lavoro a Casa P. con grande, grandissimo dispiacere. Ho cercato nella città dove vivo ora e in quelle limitrofe altre strutture psichiatriche, altri matti da curare e da cui farmi curare; ho spedito curriculum nei quali precisavo, oltre alle competenze, anche la mia naturale empatia per le persone con disturbi mentali, ma non mi ha richiamata nessuno. E allora buon Natale, amici miei. Grazie di tutto quello che mi avete dato.
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