“Come per Sara” di Daniela Mazzoni, pubblicata sul n. 24 di Confidenze, è una delle storie vere più votate questa settimana sulla pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog
È stato un incontro che non ho più dimenticato: si sono sfiorati due mondi e lei non se l’è sentita di vivere nel mio, che è il regno delle ombre. La capisco, anch’io ho paura di affrontare una realtà diversa
Storia vera di Francesco M. raccolta da Daniela Mazzoni
Immagino che in ogni famiglia possa esserci un antenato di cui avremmo anche fatto a meno. Nel mio caso, per esempio, si tratta di un ipovedente. “E che avrà mai fatto?”, starete pensando. “Era un ladro? Un assassino?”. Nulla di tutto questo, almeno credo. Semplicemente mi ha trasmesso la sua malattia. Sono ipovedente anch’io.
Lo sono dalla nascita, ma i miei genitori se ne sono accorti intorno ai sei mesi poiché non riuscivo più a ritrovare gli oggetti con cui stavo giocando fino a un attimo prima.
Retinite pigmentosa è stato il responso dei medici, ereditata probabilmente da un bisnonno o da un trisavolo, del quale però sembra essersi persa la memoria perché nessuno tra i miei familiari ha mai sentito parlare di un antenato affetto da questa malattia. Mi hanno detto che avrei potuto scoprire chi fosse “il colpevole” con un esame molto, molto costoso, ma in fondo che importanza può avere un nome piuttosto di un altro?
Io vedo il mondo attraverso i miei sensi, le mie impressioni, l’interpretazione dei miei occhi, con le sue ombre e i suoi contorni sfumati che magari non sono i vostri; ma alla fine mi domando se ci sia qualcuno che davvero può dire di aver trovato il filtro giusto per guardarlo.
Ho quasi 40 anni e ho vissuto tutta la mia vita come se di problemi alla vista non ne avessi. Ho un lavoro, un appartamento, degli amici: le stesse cose che ha la gran parte di voi. Sono un centralinista impiegato in un ufficio statale, vivo da solo in una casetta di 60 metri quadri, nei fine settimana esco a cena con gli amici.
La domanda più frequente che mi fanno è: «Come riesci ad abbinare i vestiti?». Semplice, sono un uomo molto ordinato… Il sogno di tante donne, insomma! Nel mio armadio e in casa tutto deve essere al suo posto: abiti, oggetti, mobili… E poi cucino, la mia specialità è la torta con pere e cioccolato, e passo anche l’aspirapolvere. Le sole cose che non faccio sono stirare e usare la lavatrice, ma d’altronde non si può essere perfetti!
Quel che non riesco a vedere con gli occhi, mi arriva attraverso gli altri sensi. Vi faccio un esempio: immaginate di essere con me in un bar. Mentre parlate, voi potete contemporaneamente osservare ciò che succede in un tavolino accanto. E io faccio la stessa cosa, ma con le orecchie. Posso ascoltare voi e allo stesso tempo quel che si dicono due persone qualche metro più in là.
Intorno ai 20 anni la mia vista è peggiorata parecchio: fino ad allora, portandomi un libro molto vicino agli occhi potevo anche leggere senza troppi sforzi. Ora faccio molta più fatica, ma i medici mi hanno detto che solo la lettura può rallentare un inevitabile peggioramento.
Terminate le scuole medie, avevo due possibilità offertemi dall’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti, cuore pulsante di chi ha un problema come il mio: o fare un corso di centralinista per non vedenti a Milano, oppure frequentare una scuola a Firenze per diventare massofisioterapista. Di allontanarmi troppo da casa, non ne avevo voglia, così ho scelto la prima opzione. Per fortuna i miei genitori hanno sempre avuto una pazienza infinita e non mi hanno mai abbandonato al mio destino; infatti, i primi giorni di scuola è stata mia madre ad accompagnarmi a Milano. Prendevamo il treno insieme, poi la metro e infine percorrevamo a piedi la strada fino all’istituto, finché non ho imparato il percorso e ad arrangiarmi da solo, come sempre del resto, al punto di provare gusto nel vagabondare solo per una città semisconosciuta.
Se posso considerare la mia vita normale al novanta per cento è sicuramente merito dei miei amici, che prima ancora che io chieda, già sanno di cosa posso aver bisogno. Sono loro il mio vero bastone bianco!
Ciò che non vedo domando agli altri di raccontarmelo e con mia grande sorpresa ho scoperto quanto possa essere diversa anche solo una montagna, a seconda di chi me la descrive. «Ma una montagna è una montagna!», direte voi. Già, lo dico anch’io, ma tante persone si sentono in imbarazzo a contraddirmi, così se io rivelo la mia visione immaginaria delle cose, capita che anche altri la vedano filtrata attraverso i miei occhi.
E poi cinque anni fa conobbi Sara. Aveva partecipato insieme a suoi amici a una “cena al buio”, organizzata dall’Unione Italiana Ciechi. Io in quell’occasione servivo ai tavoli. Organizziamo spesso serate come queste: scegliamo un ristorante, spegniamo le luci, oscuriamo le finestre e invitiamo a cena le persone per far comprendere le difficoltà che i non vedenti possono incontrare svolgendo un’attività quotidiana che può sembrare banale.
Il suo profumo alla vaniglia aveva riempito la stanza e prima ancora di sapere chi lo avesse addosso, già mi immaginavo capelli biondi e occhi chiari e limpidi. Ovviamente Sara era mora con gli occhi scuri!
Potevo sentire la sua risata in mezzo a tutto quel vociare confuso e quando arrivò il momento di servire l’antipasto, mi presentai a lei e ai suoi amici: «Ciao ragazzi, io sono Francesco! Per qualunque cosa, anche per andare alla toilette, chiedete pure a me».
«Scusa, ma tu come fai a servirci nell’oscurità?» fu la prima cosa che mi domandarono. «Sono ipovedente, vivo la mia vita nell’oscurità!» dissi io ironico. Ma la mia risposta creò un disagio palpabile, perché per un lungo momento nessuno di loro parlò più.
A fine cena accendemmo le luci e Sara venne da me per domandarmi se fossi io Francesco. «Sì, come hai fatto a capirlo?». «Non l’avevo capito, a dire le verità, ma tu me l’hai confermato ora!». Mi sentii avvampare, sperai che nessuno mi stesse guardando in quel momento e per nascondermi il viso alla bell’e meglio allargai una mano davanti alla bocca facendo finta di tossire. Poi le chiesi come fosse andata la cena. Disse di avere una patacca di vino rosso sulla maglia bianca e di aver sparpagliato ovunque gusci di cozze vuoti, anche dentro il portapane!
Scoppiai a ridere. Fu in quel momento che lei disse di volermi rivedere. Raccontò di essere una giornalista e di voler scrivere un articolo sulle tante attività dell’Unione Italiana Ciechi.
Accettai senza farmi pregare. Due settimane più tardi ci demmo appuntamento in centro. Quando arrivai lei era già lì: me lo rivelò il suo profumo alla vaniglia. Entrammo in un bar e lei prese una cioccolata. Vedevo il profilo scuro dei suoi capelli e sapevo sempre quando stava bevendo, perché sentivo il tintinnio della tazza mentre l’appoggiava al piattino.
Fuori il sole era tiepido e passeggiammo un po’ sotto i portici. Ripiegai il mio bastone bianco per infilarlo nella tasca del giubbotto e la presi sottobraccio. Parlava e rideva, mi descriveva vestiti strani esposti nelle vetrine dei negozi, salutò una donna che dalla voce mi pareva anziana e mi accompagnò lungo la strada che portava a casa mia.
«Posso lasciarti andare da solo adesso?» mi domandò con un tono preoccupato.
«Saprei arrivare a casa a occhi chiusi!» risposi ridendo.
Si avvicinò per darmi un bacio sulla guancia e, così vicini, potei vedere i suoi occhi. Poi sentii sulle mie labbra un sapore di cioccolato: era la sua bocca che si era posata sulla mia.
Mi capita ancora di pensare a lei. A lei che ora vive a Londra inseguendo i suoi sogni. Se n’è andata tre anni fa e nonostante mi avesse detto che nulla sarebbe cambiato tra noi, che sarebbe tornata spesso a casa per stare con me, che avrebbe tanto voluto che anch’io l’andassi a trovare… nonostante tutto questo, io sapevo già di averla persa. Bisogna avere voglia di vivere nel mio mondo e lei, come darle torto, non ha mai desiderato abbandonare il suo.
Più il tempo passa, più la mia vista è destinata a peggiorare. Nessuno può dirmi con certezza se diventerò completamente cieco. Non ci penso. Credo mi faccia più paura sapere che un intervento potrebbe farmi riacquistare la vista. Vedere mi spaventa, scoprire che alcune cose potrebbero essere differenti da come io le “vedo”, mi fa molta paura. Il mio mondo è questo, da 40 anni…
Come vi sentireste voi, per esempio, se le facce di tutte le persone che conoscete mutassero dalla sera alla mattina? Probabilmente vi sentireste frastornati, confusi, turbati, terrorizzati. Ecco, per me sarebbe più o meno la stessa cosa: scoprire all’improvviso che tutto non è come ho voluto immaginarlo, è quel che più mi spaventa. Come per Sara, anch’io non ho voglia di abbandonare il mio mondo fatto di ombre per il vostro. Le sfumature che delineano tutto ciò che mi sta attorno sono come contenitori vuoti, che passo il tempo a riempire con la mia fantasia.
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