Siamo una di fronte all’altra, nel vagone del metrò, abbiamo storie così lontane. Lei chiede l’elemosina cantando una melodia struggente, io ho perso l’impiego, ma davanti ai suoi occhi stanchi riesco a trovare una forza che non sapevo di avere
L’amica sconosciuta storia vera di Marina A. raccolta da Laura Gaggianesi
Sabato mattina, ore 8.30, sono sulla banchina della metropolitana a sud ovest di Milano e devo andare a nord, Viale Monza.
Mi aspettano una quindicina di fermate, perciò quando arriva il treno quasi deserto, mi scelgo il posto e cerco di sonnecchiare un po’ chiudendo gli occhi.
Fino a tre anni fa avevo un lavoro ben retribuito, viaggiavo in tutta Europa, mi potevo togliere quei capricci che abbiamo noi donne quando siamo davanti a vetrine di moda, poi c’erano le vacanze: sia montagna che mare e sempre in alberghi a quattro o cinque stelle.
Improvvisamente lo tsunami si è abbattuto su di me: sono stata licenziata in tronco, così dall’oggi al domani mi sono ritrovata a casa. I primi tempi ero ottimista: avrei trovato a breve un altro lavoro, con tutta l’esperienza accumulata in 20 anni presto qualche multinazionale mi avrebbe contattata, ma avevo anche oltrepassato la quarantina e forse anche per questo nessuno mi ha più cercata per propormi un lavoro nel mio settore.
Un mutuo da pagare, bollette, spesa, le solite cose, e si inizia a tagliare. Prima il superfluo come parrucchiere, estetista, abbigliamento, palestra, pay tv, teatro, poi anche le vacanze, al massimo una settimana ospite in campagna dai cugini è ciò che oggi posso permettermi. Alle amiche ho parlato chiaro: non posso più partecipare ad aperitivi, cene, weekend e alcune sono rimaste allibite, non sembra loro possibile che io debba rinunciare anche a questo, ma è così.
Per onorare i conti che puntualmente aspettano di essere pagati ho dovuto attingere ai risparmi: ho calcolato che se entro un anno non porto a casa uno stipendio decente dovrò vendere le sterline che mi ha lasciato papà, poi rimane la casa che per l’appunto è mia solo per metà, l’altra appartiene ancora alla banca e se la vendo recupero metà del suo valore e con quello non mi resta che andare via da Milano.
L’umiliazione di questa vita me la leggo in faccia tutte le mattine guardandomi allo specchio e questa città non aiuta di certo. Il business, i soldi, la fretta della gente, questa è la città dove sono nata, ma ora mi è tutto così estraneo; mi sento inutile, uno scarto, non più parte di un meccanismo efficiente e produttivo. Un viaggiatore senza meta a cui non resta che abbandonarsi alle correnti della vita.
E faccio i conti, sempre. Dunque vediamo: questo mese a cosa posso rinunciare? Non mi viene in mente niente a cui non rinunci già. La mia vita è cambiata, io sono un’altra persona, perennemente tesa come una corda di violino, sempre a sbattere la testa contro il muro e a controllare il conto in banca che si assottiglia di giorno in giorno.
Per guadagnare qualcosina ho accettato di fare delle sostituzioni in un negozio di erboristeria: mi chiamano quando hanno bisogno e io devo correre. Può essere per un giorno, una settimana oppure anche solo due ore, come stamattina: due ore di viaggio tra andata e ritorno per due ore di lavoro.
Seduta nel mio angolino della carrozza del metrò anziché sonnecchiare il cervello si arrovella su come sopravvivere, giro e rigiro i bigliettini che mi scrivo con le cifre in entrata e quelle in uscita, come una coperta troppo corta: i conti non tornano.
A cinque fermate dalla mia sale una donna, avrà una cinquantina d’anni: bionda, un po’ in sovrappeso tutta infagottata nel suo pastrano; dai tratti somatici intuisco sia di qualche paese dell’est Europa. Si tira dietro un carrellino sul quale c’è un impianto musicale con amplificatore, in mano un microfono che sta insieme col nastro adesivo. Parte la base, è una melodia del suo Paese, la voce chiara e intonata ben si accompagna a quelle note di una tristezza immensa. L’insieme è struggente, lei è struggente.
Sul convoglio siamo quattro gatti, nessuno le presta attenzione, io invece sono rapita da questa donna che con grande dignità sta cantando una canzone che solo lei conosce, mentre chiede l’elemosina.
Vorrei prenderle le mani e dirle che la stimo enormemente perché immagino che la sua vita non sia facile. Abbandonare il proprio Paese per cercare almeno di mangiare qui da noi, lasciando i propri affetti nella povertà più nera. Nessuno dovrebbe ridursi a chiedere gli spiccioli soprattutto se è una donna. Non faccio finta di niente girando la testa, ma la guardo con l’attenzione che merita, come se fosse la performance di una grande artista. Lei si accorge che solo io le presto attenzione e allora finisce per ricambia re il mio sguardo e cantare solo per me.
La sua dignità, il suo cappotto liso, gli occhi stanchi e quella canzone d’altri tempi mi fanno salire le lacrime agli occhi e un nodo alla gola mi impedisce di respirare, sto per scoppiare a piangere. Come posso lamentarmi? Certo non ho un lavoro, ma ancora un tetto sulla testa sì, e non devo umiliarmi a cantare una melodia che nessuno conosce sulla metropolitana di una città e di un mondo lontano dal mio, da sola.
La donna si accorge della mia commozione e mi viene vicino accennando un sorriso, anche lei ha gli occhi lucidi. Siamo l’una di fronte all’altra, con due storie così tanto diverse: io sono quella fortunata perché il caso ha voluto che nascessi in Italia, da bambina i miei genitori non mi hanno fatto mancare nulla, ho potuto studiare e poi mi hanno sempre amata e accudita. Ora ho qualche difficoltà legata alla mancanza di lavoro, ma in fondo il mio bicchiere è mezzo pieno.
Senza piombare nello sconforto mi devo dare da fare a essere positiva e continuare a cercare un lavoro stabile, se non arriva oggi magari arriverà domani, in fondo questo è un piccolo momento difficile della mia vita, non la fine catastrofica che mi figuravo fino a poco fa.
Questo grazie a lei, la signora cantante dell’est che ha rimesso le cose a posto nella mia mente, mi ha aiutato a riflettere. Con metodo e pazienza cercherò di ritornare a galla.
Gorla, la mia fermata. Cerco di tirar fuori un sorriso sincero e le porgo la mia offerta, spero che i miei occhi riescano a comunicarle la moltitudine di sentimenti che è riuscita a far nascere in me. Salutandoci con una lacrima che scende sul viso di entrambe, proseguiamo la nostra corsa in direzioni diverse, verso mete sconosciute. Forse non ci rivedremo più, ma ci sentiamo legate grazie a quei fuggevoli attimi in cui ci siamo “lette” e perfettamente capite.
A te che più di me lo meriti, auguro una vita migliore, amica mia. A te che forse hai sempre lavorato tanto ma che non è bastato, o forse hai sbagliato, perdendoti, dico che ora non importa più. Per come la vita ti sta prendendo a pugni bisogna perdonarti tutto. Mi auguro che tu venga accolta fra le misericordiose braccia di una buona stella che vegli su di te, proteggendoti sempre e che ti conduca presto verso il momento del riscatto.
Entro in erboristeria con un gran sorriso, le colleghe mi guardano sorprese nel vedermi di buon umore, e questo non può che farmi piacere. ●
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