“Il lago delle fate” di Lorenzo Iero, pubblicata sul n. 30 di Confidenze, è la storia più apprezzata della settimana. Ve la riproponiamo sul blog
Mi sono costruita una vita di successo con il lavoro, decisa a realizzare tutte le mie ambizioni. Così ho rischiato di rinnegare le mie origini, legate a un piccolo mondo scomparso. Ma ci sono posti magici da cui non si può scappare
Storia vera di Giulia D. raccolta da Lorenzo Iero
Era una fredda mattina di novembre quando scesi dal treno e mi ritrovai d’improvviso a inebriarmi di profumi e ricordi che credevo di aver ormai cancellato per sempre. La fine aria di montagna, così pungente, penetrò fin dentro le mie ossa, insieme alle immagini della mia infanzia spensierata.
Mi venne incontro un uomo con una chiassosa camicia a quadri e un paio di jeans consumati, agitando un braccio per farsi notare. «Giulia! Che bello rivederti».
«Grazie per essere venuto» gli risposi con un sorriso di sollievo. Mattia, il ragazzino gracile e brufoloso con cui avevo passato gli anni più felici della mia adolescenza ora era un attraente trentenne, che mi sovrastava con la sua statura imponente. Una barba incolta gli incorniciava il volto squadrato, e i profondi occhi scuri rendevano il suo sguardo più serio e profondo.
Con Mattia avevo riallacciato i rapporti dopo la prematura scomparsa di mia madre e, quando in me era cresciuto il bisogno di ritornare al mio paese natale, lui si era offerto di venirmi a prendere alla stazione dei pullman.
I suoi occhi si soffermarono sul mio corpo per catturare i cambiamenti che il mio aspetto aveva subìto nel tempo. Dell’infanzia avevo conservato il rosso fiamma dei capelli e mille piccole efelidi che mi punteggiavano il viso. Inedite per lui, invece, erano le morbide curve della mia silhouette da donna ormai adulta in tailleur pantalone nero.
Durante il tragitto Mattia mi raccontò di aver realizzato il suo più grande desiderio: aprire un piccolo bar davanti all’antica fontana della piazza. Quando io lo aggiornai sulla mia promozione come responsabile dei cantieri edili dell’azienda in cui lavoravo e di come mi sentissi realizzata nel vivere in una grande, movimentata metropoli, lui fece una smorfia. Non credeva possibile che si potesse essere felici in un luogo dove la gente non aveva il tempo di odorare il profumo della terra bagnata o di osservare le stelle sdraiati sull’erba.
Alzai le spalle: «Dovresti uscire dai confini di queste montagne. Provare ad aprirti a nuove esperienze, conoscere persone diverse». Il mio consiglio non gli piacque: «Qui ho tutto quello che mi serve: aria pulita, visi rassicuranti e conosciuti, la soddisfazione di poter rendere felici le persone servendo loro cornetti e caffè freschi ogni mattina. Cosa potrei chiedere di più?».
Inteso che non avrei mai potuto cambiare il suo modo di vedere le cose, presi a osservare gli alberi secolari ai lati del sentiero e, quasi senza accorgermene, mi ritrovai di fronte alla piccola casa dove avevo abitato fino a 15 anni.
Mi fermai, bloccata da un misto di emozione e contemplazione. Adesso la casetta si ergeva solitaria e fatiscente, abbandonata ormai da molti anni ma ancora in piedi, come a volermi ricordare quanto avevo trascurato le mie radici. Non saprei dire neppure l’attimo preciso in cui avevo iniziato a rinnegare il mio passato e la povertà della mia famiglia che mi aveva portato a provare vergogna per ciò che ero. Gli ultimi miei ricordi di quel posto risalivano all’umiliazione di esserne stati sfrattati.
Mattia sembrava aver letto nei miei pensieri: «Tutti in questo paese hanno ancora vivissima la memoria della tua onesta famiglia e sono molto felici che tu sia tornata a farci visita».
Non risposi e, dopo un’ultima malinconica occhiata al rudere, ripresi a camminare con il viso puntato verso l’alto, ricordando a me stessa la donna fiera e indipendente che ero diventata. Mattia mi diede un piccolo buffetto sulla spalla. «Cosa facciamo stasera? Ti va di andare a rivedere il lago delle fate?».
Ed ecco che l’immagine vivida di noi due bambini invase subito la mia mente: mai avrei pensato che si ricordasse ancora del nostro luogo segreto e accettai l’invito per lasciar riemergere tutte le emozioni che non provavo da troppo tempo.
«Prima però vorrei riposare. Ci vediamo dopo cena, fuori dal Grand Hotel, ok?».
Con uno sguardo che mi lasciò interdetta commentò: «Devi avere uno stipendio notevole per poterti permettere quell’hotel, piuttosto della pensioncina della vecchia Carmela».
Il tono era ironico, ma le sue parole mi fecero riflettere: da quando avevo capovolto il mio destino, buttandomi a capofitto nello studio per trovare un lavoro che mi permettesse di concedermi anche dei lussi, non avevo più considerato chi era rimasto ancorato a una vita senza agi né pretese. Anche se credevo di meritare il privilegio di dormire in un hotel lussuoso – lo stesso che da piccola ammiravo come un luogo per me inaccessibile – e pur pensando che Mattia non aveva nessun diritto di giudicarmi, dentro di me mi sentii meschina senza comprenderne il motivo.
La sera in hotel, quando fu ormai buio e le stelle illuminavano il cielo senza nubi, sentii gridare dalla strada il mio nome. Era Mattia. Stavo inviando alcune mail importanti e la sua voce mi ricordò il nostro appuntamento.
Poco dopo raggiungemmo un piccolo laghetto non distante dal paese, una pepita nascosta tra alberi secolari che sembravano volerlo tutelare dalla contaminazione del resto del mondo. Da piccoli ci eravamo promessi che il lago delle fate sarebbe rimasto un privilegio soltanto nostro, di nessun altro.
Ci sedemmo sulla riva, nell’erba umida. Faceva freddo e mi strinsi istintivamente al braccio di Mattia. La calma e la solenne serenità di quel luogo placarono subito lo stato d’irrequietezza che non mi aveva abbandonata da quando ero tornata al paese. Mattia sembrava di nuovo capire le mie emozioni e mi pose la domanda che tanto temevo: «Perché hai deciso di tornare dopo tanto tempo, in questo luogo dimenticato da tutti?». Lo disse con un tono calmo, imbarazzato, e capii che non intendeva giudicarmi, ma soltanto immedesimarsi nel mio stato d’animo.
Guardai il lago e decisi di essere sincera: «Sono a un punto della vita in cui non non ho più preoccupazioni economiche, ma sono cambiata così tanto che non mi riconosco. Non ritrovo più la bambina che correva scalza nei campi, che non dava peso al giudizio della gente, che tornava a casa con la maglietta imbrattata di fango, ma soddisfatta di aver vinto contro il suo amichetto».
Mattia rise di gusto: «In tutti questi anni io non ho mai dimenticato quella dolce bambina». Intorno a noi tutto tornò silenzioso.
Poi, a sorpresa, spuntarono le prime luci colorate sulla superficie del lago: arrivarono proprio al momento giusto per togliermi da quell’imbarazzo.
«Ecco le fate!» esclamai entusiasta, indicando con la mano il punto in cui le luci iniziavano a propagarsi, per poi diramarsi in tutto lo spazio attorno a noi. In un attimo, ne fummo accerchiati. Quelle che io e Mattia chiamavamo fate in realtà erano le lucciole che di notte illuminavano di mille sfumature d’oro quell’angolo di paradiso, creando uno spettacolo fantastico, quasi impossibile da descrivere.
E fu proprio come per magia che in quel momento inquadrai con chiarezza il motivo per cui avevo scelto di ritornare a “casa”, nel posto in cui ero nata e cresciuta e che mi aveva reso quella che ero diventata.
Allungai la mano per toccare quella di Mattia e la strinsi forte, con gli occhi pieni di lacrime. Mentre le luci vorticavano intorno a noi, dolcemente, ci baciammo. Sentii il cuore accelerare, una sensazione che non avevo mai provato, e non pensai che fosse quello l’amore. Soltanto anni dopo, raccontando ai miei figli come mi fossi innamorata del loro papà, confessai che il sentimento provato quella sera al lago delle fate mi aveva fatto rinascere una seconda volta.
I giorni successivi si tinsero di leggerezza e di armonia. Con Mattia mi sentivo talmente libera di essere me stessa da non rendermi conto che stava arrivando il momento di tornare alla mia solita vita.
«Perché non resti qui?» mi chiese lui, prendendomi alla sprovvista, il giorno prima della partenza. Mi sentii mancare la terra sotto i piedi: tutte le mie certezze di colpo vacillavano. Eravamo nel suo bar, dietro al bancone lo aiutavo a preparare i caffè. M’irrigidii, così confusa da versare il liquido oltre il bordo di una tazzina, macchiando il piano di legno.
«Non posso, lo sai» gli risposi.
In realtà Mattia non poteva saperlo, anzi non poteva nemmeno immaginarlo: era una persona umile, non era mai stato in città e tutta la sua vita si basava su poche e semplici sicurezze. Ma non si arrese facilmente. Mi girò verso di sé, risoluto come mai l’avevo visto prima: sentivo che avrebbe fatto di tutto pur di non vedere il suo grande amore sfuggirgli una seconda volta.
«Questo bar va avanti bene, la mia clientela è affezionata e sto costruendo una piccola casa con l’aiuto di mio padre. Perché non puoi? Cosa t’impedisce di vivere una vita felice, qui con me?».
Abbassai gli occhi. Non riuscivo a sostenere il suo sguardo.
Tornai al Grand Hotel per sistemare la valigia, molto delusa da me stessa e allo stesso tempo ancor più arrabbiata con Mattia perché non capiva le mie ragioni: facile per lui chiedermi di rinunciare a tutti gli anni di sacrifici, per tornare a una vita che proprio io avevo scelto di archiviare! Incolpai me stessa per aver avuto la pessima idea di tornare in quel paesino di montagna e mi dissi che, una volta in città, mi sarei presto dimenticata della mia vecchia catapecchia, del lago delle fate e del sentimento che provavo per Mattia.
I miei occhi indugiarono sulle scarpe costose con il tacco a spillo, sistemate in un angolo della stanza e, lì, mai usate. Mi venne da ridere al solo pensiero di averle messe in valigia. Più ci pensavo, più ridevo forte, fino a piangere… E fu allora che tutto mi sembrò più chiaro.
Corsi sotto casa di Mattia e urlai il suo nome a squarciagola perché uscisse.
«Giulia, cosa ci fai qui a quest’ora?» mi chiese allarmato, affacciandosi alla veranda. I grilli frinivano e un dolce profumo di pane caldo giungeva portato dal vento, da qualche casa vicina.
Quando mi raggiunse, notò subito i miei piedi nudi: «E perché sei scalza?».
Ripresi a ridere come in hotel, gli buttai le braccia al collo e lo baciai appassionatamente. «Questo significa che hai deciso di rimanere?» mi chiese emozionato.
Gli sorrisi: finalmente stavo mettendo perfettamente a fuoco quello che avevo cercato. «Ho capito che la felicità non si deve sempre inseguire. Alcune volte, per raggiungerla, basta fermarsi».
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