Sui morti della mafia, Franco Battiato cantava “Ma non vi fanno un po’ di dispiacere/ quei corpi in terra senza più calore?” Era il 1991.
Allora quel richiamo alla coscienza aveva un forte significato. Ma oggi la coscienza si chiama buonismo, per metterla in ridicolo. Se hai un barlume d’umanità, sei un ipocrita e un imbecille, l’ho detto tante volte ma continuerò sempre a maledire questa parola rivoltante, perché è quella che segna il passaggio dalla civiltà alla barbarie.
Sappiamo tutti che una colonna di 10.000 profughi sta attraversando strade e deserti per chiedere asilo agli Stati Uniti. L’esercito degli oppressi- viene subito in mente l’immagine del Quarto stato di Pellizza da Volpedo, ma nel dipinto il popolo avanza orgoglioso, consapevole dei suoi diritti, questa invece è una moltitudine in fuga.
Sfiniti dalle notizie siamo sempre più indifferenti, finché non vengono a bombardarci casa nostra. Un’occhiata ai giornali, un’altra al telegiornale: i diecimila non hanno volto, sono una massa di disgraziati come siamo ormai abituati a vedere in tutto il mondo, e non ci fanno più grande impressione- sono gli altri. Ma poi li abbiamo conosciuti, grazie a Nemo, il programma condotto da Enrico Lucci con la regia di Alessandro Sortino, una trasmissione che ha ancora l’anima e slancio e coraggio, non ha paura della verità, e va al cuore del reale. Nemo ci ha costretto a guardare in faccia quelli che scappano dal Messico, dal Nicaragua, dall’Honduras, e preferiscono morire per strada piuttosto che tornare alle torture, agli stupri, al carcere, alla dittatura, dove la polizia e i narcos esercitano la stessa bestialità, la stessa licenza di uccidere, liberi di schiavizzare, violentare, storpiare.
A Nemo li abbiamo visti, non più folla ma persone, volti e voci, li abbiamo sentiti raccontare le loro storie- come una madre del Nicaragua, che per salvare la figlia ha subito la violenza di cinque bruti, e tante altre storie di orrore che ti vergogni ad ascoltarle, ma anche, storie di forza disperata, di tenacia nel restare vivi, nel fare 4500 miglia a piedi in cerca della salvezza.
Altre voci: quella dell’altoparlante che grida a tutti, di continuo, Caminar juntos! Marciare uniti, per non lasciare spazi alle incursioni della polizia che potrebbe disperderli. È stato paragonato all’ Esodo dell’Antico Testamento, e i fuggitivi lo sanno. Il ragazzino scampato ai narcos, ma ferito a una gamba e costretto in sedia a rotelle, non lascia mai la sua Bibbia. Nel libro dell’Esodo si riconoscono. Un bel vecchio, parlandone, sa perfino sorridere: C’è una grande differenza fra il nostro cammino e quello degli antichi Ebrei. Al suo popolo Dio mandava colonne di fuoco la notte per illuminare la via, e nuvole di giorno per ripararlo dal sole. A noi non ci manda niente.
La potenza di quel réportage ti fa capire che loro siamo noi, cristianamente per chi crede, storicamente per tutti. E capisci che uguaglianza e libertà, il sogno che cominciò con la rivoluzione francese, è durato poco più di duecento anni, capisci che stiamo tornando a disuguaglianze da medioevo. Capisci che siamo perduti. Il documento di Nemo fa venire le lacrime, e sai che quando piangi per loro, piangi per te. Hai davanti il tuo futuro. Per arrivare a una forma di vita civile ci sono voluti millenni, ma per tornare alla clava, alla sopraffazione senza limiti, basta così poco.
Chi ti incita all’egoismo al razzismo all’intolleranza, ti incita contro te stesso. E chi inneggia alle ruspe di Salvini, quando radono al suolo un centro di accoglienza come il Baobab, non sa che quelle ruspe sono anche per lui, e un giorno raderanno al suolo i suoi diritti civili.
A Nemo, dopo quel documento atrocemente emozionante si torna in studio, e lì c’è una consolazione inaspettata: invece di un commentatore di professione c’è il bel volto purissimo di Andrea Delogu, gli occhi lucidi, composta, commossa e severa, che con parole semplici e alte interpreta il nostro sgomento di spettatori costretti finalmente a vedere. Una rappresentazione della grazia, che induce alla speranza.
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