La nostra autrice si presenta: “Son nata in Calabria e prima di cominciare la giornata guardo il mare che si inchina ai miei occhi. La mia seconda città è Firenze dove ha studiato la mia mamma e di conseguenza anche noi tre figli. Il capoluogo toscano è fondamentale per me, così come le mie radici. Lavoro con i bambini come pedagogista libera professionista, lavoro per i bambini come giudice onorario nel Tribunale per i Minorenni, opero in favore dei bambini quando aiuto i genitori a dare il meglio dei loro talenti per arricchire la responsabilità genitoriale di cui sono custodi. Amo scrivere e gestisco il blog pedagogico www.bisognibambini.com, una mia creatura che curo con tutta me stessa”.
Cinque decenni superati. Mi guardo allo specchio e mi chiedo “perché non ce l’ho fatta ad arrivarci in condizioni migliori?”. Ma va bene così, in fondo. La salute, su per giù, va bene. Cammino veloce, nel lavoro mi occupo di bambini, i migliori al mondo, nella vita mi preoccupo del compagno della mia vita e seguo passo passo mio fratello e mia sorella. Insomma, ho praticamente tutte le cose di cui ho bisogno.
Mi guardo allo specchio e avrei tanti perché ancora sulle labbra, nel profondo del mio sguardo nocciola, nella piega della guancia sinistra, nei capelli tinti che mai stanno in piega.
Mi rifletto nello specchio e mi faccio ogni giorno forza. Non sono sola, ma mi sento lontana.
Quando perdi le tue due radici principali, vivi attimi lunghissimi di disorientamento statico.
Quando non hai neppure proiettato una parte di te nel futuro, perché non era tempo, non era luogo, non eri la mamma prescelta, non eri capace di generare, allora il disorientamento diventa perpetuo.
Hai sempre bisogno di un progetto, solido, vivo, produttivo, anestetico del dolore che lo stomaco avverte se sfiora il disorientamento.
Una cosa è certa: io se avessi la possibilità di tornare indietro, non farei nulla di ciò che ho fatto per cinquanta anni. Nulla.
Diffido con convinzione di chi afferma l’esatto contrario. No, forse invidio questo qualcuno. Ma sta di fatto che tutto, tornando indietro, sarebbe diverso. Darei un’impronta diversa, una direzione netta, un assetto completamente all’opposto.
Per prima cosa cambierei i fermo-immagine della vita con mia madre. Non cambierei mai mia madre, una delle mie due radici appena scomparsa, ma muterei le sue reazioni e le mie, date in momenti cruciali dell’infanzia e dell’adolescenza. Sì, quelle subito. Immediatamente.
Mamma era una donna incompresa nella sua modernità. Ragazza mite e lungimirante. Quando il suo papà le propose di studiare fuori casa e all’estero, non fece una piega. Senza se e senza ma lei andò, partì, aprì la mente e cominciò a costruirsi, ad ampliarsi e a sognare il mondo.
Ma quando a sette teneri anni di vita lei mi fece partecipare alla colonia estiva sulle Dolomiti, ci andai con il cuore stretto stretto. Per me era una costrizione, così come lo furono tutte le altre colonie e ringrazio il cielo della compresenza di mio fratello, quattordici mesi più grande di me. Senza di lui sarei rimasta nascosta sotto un letto di una stanza in cui altri bambini parlavano una lingua diversa dalla mia. Non se ne sarebbe accorto nessuno della mia assenza, almeno per un po’. Ero timida. Con mio fratello mi facevo forza. Era la mia forza lui e lo è ancora.
La mia mamma ha pensato che fosse tutto lo stesso per me come lo fu per lei nella sua infanzia, per lei era scontato che fossi mite e lungimirante come lei. Lo ha dato per scontato e ha agito come se quella piccola bambina che ero io e che desiderava solo starle accanto, fosse una futura viaggiatrice e sognatrice, temeraria, senza fisime e senza incertezze.
Lo sarei stata, ma il fermo immagine oggi mi suggerisce la domanda che quella mamma avrebbe dovuto porre a quella bambina sofferente: “Perché piangi? Cosa ti manca? Chi ti manca?”.
E la bimba avrebbe potuto piangere meno e coraggiosamente dire “Mamma, per me è ancora presto!”.
Le mamme non nascono con un manuale tra le mani, né frequentano una scuola dell’obbligo per future madri. La mia era sensibile, affettuosa, amorevole, ma non lo dava a vedere in alcun modo.
Durante la scuola dell’obbligo ho studiato a fatica. Sono mancina e lo sono sempre stata. Mamma, in verità, mi ha sempre difeso in questo, giammai a scuola una maestra si fosse mai permessa di correggere la mia inclinazione, la mia opposizione, la mia trasgressione! Bastava una minaccia di denuncia, uno sguardo obliquo di mia madre e tutto rientrava. Ma a scuola mamma non c’era e non ha potuto mai sapere come ci si sente ad essere messe da parte perché sei una bambina impegnativa e complessa.
A casa la mamma non ha trovato la strada per insegnarmi l’arte del cucito, del ricamo e della sua creatività senza limiti. Con questi strumenti in mano avrei volato ad alta quota. Come ha fatto lei. Io davo per scontato che un cappotto su misura uscisse dalle sue mani indaffarate e non da un negozio, ma questo lo imparai bene quando l’accompagnavo nelle boutique a scegliere un capo di sartoria sopraffina che lei squadrava con occhio attento, angoloso e ingrandito tra i vivagni delle cuciture più recondite dell’abito che teneva tra le mani. Il giudizio positivo era l’acquisto del capo messo dopo in mostra nella sua stanza da letto, ammirato e indossato alla prima occasione durante la quale mamma era … bella e io non sarei mai stata come lei! Non avevo la caviglia affusolata come lei, non avevo il polpaccio delicatamente nervoso come lei, non avevo il 36 di piede che la décolleté color crema slanciava nonostante fosse lei una figura sotto il metro e sessanta.
Lei era unica. Era un’impiegata provinciale, poi un funzionario regionale ma, tornata a casa dal lavoro, apriva i cassetti, le scatole e le ante degli armadi che, a quel gesto si svuotavano di fili, di cotone, di lana, di stoffe colorate. Tutti ingredienti utili a trasformarsi in oggetti, in animaletti, in vestiti e in piccoli tesori di inestimabile valore. Il prodotto degli studi fatti oltralpe da parte di una ragazzina che, dalla Calabria negli anni cinquanta, ha avuto il coraggio di allungare lo sguardo prima di ritornare nella sua terra per accasarsi con un uomo che la intuiva nel profondo, mio padre, che l’amava più della sua vita, che l’adorava e l’attendeva per riempire di senso le sue giornate. Perché era lei il suo respiro e perché in lei lui si riconosceva uomo.
Ero mancina, scrivevo a rovescio e leggevo a tre anni perché mia madre adottava un metodo tedesco che ha collaudato con me. Che io scrivessi al contrario lei lo capì un giorno che le presentai un pezzo di carta con scritto su una bella cosa, ma lei non comprese se non nel momento in cui io mi allontanai, leggermente delusa, perché non apprezzata. Solo allora lei mise il foglietto controluce e lesse “Mamma ti voglio bene”. Emozionata, ma non ai miei occhi, smise di insegnarmi altro con quel metodo innovativo, delegando la scuola a farlo con metodologie anche vetuste. Temeva, infatti, che le sfuggisse di mano l’apprendimento ormai innescato, come in una catena di montaggio da lì in avanti nella mia vita. Purtroppo. A scuola mi annoiavo e, chi insegnava, lo faceva con flemma, senza entusiasmo, con atteggiamento annoiato e carico di vociare monotono.
Da lì in poi il mio percorso scolastico è stato “normale”, senza alti e senza bassi. A scuola non ero interessante per nessuno per cui facevo quanto bastava. A casa però ero quello che sono. Mi piaceva tanto leggere. Vedevo mia madre sempre con un libro in mano o al suo fianco sul letto. Crescendo vedevo la sua stanza da letto trasformarsi in una mini biblioteca. La libreria nel salone era stracolma e le rimaneva di riempire il comò, i comodini e i cassetti della stanza in cui riposava. Prima di dormire leggeva, appena sveglia leggeva, si appisolava e leggeva. Io per osmosi leggevo dietro lei. Lei mi leggeva le storie quando non ero ancora autonoma in questa competenza. Non si trattava di insegnare alla “mancina” a cucire, a tenere i ferri o l’ago, ma ad apprendere per osmosi da lei. D’altronde fu lo stesso per mio fratello e per mia sorella. Ecco, quell’insegnamento silente, quell’esempio altamente nobile, quel non dire, ma guarda e impara fu il passaporto montessoriano che acquisii per ampliare confini, oltrepassare ostacoli che in realtà vivevo a scuola e per diventare finalmente l’eroina della mia vita. In questo e per questo chapeau alla mamma!
A pranzo e a cena in famiglia gli argomenti di discussione erano per lo più e spesso i problemi del lavoro della mamma. Lei era un’impiegata incompresa sul lavoro, un luogo che io percepivo stonato rispetto al sua gran da fare. Avrebbe dovuto essere normale che lei fosse apprezzata. Non avevo assolutamente idea che una donna in ufficio fosse diversa da un uomo. Non capivo quindi la veemenza di mia madre nel porgere a mio padre le delusioni quotidiane.
Negli anni settanta in una piccola città meridionale per una donna, lavorare in un ufficio composto per la gran parte da uomini, oltretutto maschilisti, credo non fosse per nulla semplice e credo che il coraggio tutto femminile dimostrato da mia madre fosse messo considerevolmente a dura prova. Ricordo le sue arrabbiature, ma ricordo con dolcezza estrema, mio padre che la raccoglieva e le infondeva forza.
Mio padre era un uomo giusto, come Giuseppe di Maria. Questa è una certezza indiscutibile. Un uomo raro. Un papà che infondeva dolcezza fino all’altro capo dell’universo.
Intorno al desco ho imparato a prendere decisioni. Lì, il mio pensiero ritorna ancora oggi che ho superato cinque decenni e decido che la mia replica avrebbe potuto essere diversa. Avrei dovuto dire la mia, interrompere i problemi di pari opportunità, cosicché la mia capacità decisionale ne avrebbe tratto maggiore giovamento.
“Mamma da grande voglio fare l’architetta!”, una delle frasi mancate, mai dette, che ancora sogno di dirle, ma solo nella mia rivisitazione, nella mia pellicola a colori che si srotola davanti ai miei occhi.
Sono cresciuta tra due forze ben distinte e distinguibili: a mo’ di uomo vitruviano, con due elastici tesi, uno nella mano sinistra e l’altro nella destra. Mamma a sinistra e papà a destra. Io che barcollo sempre più a sinistra, ma che riesco tutto sommato a stare in piedi.
A scuola a 12 anni avrei voluto una guida che scoprisse i miei talenti. Qualcuno che intuitivamente facesse di me, bambina mancina, un’architetta, una pittrice, una disegnatrice. Avevo un’insegnante molto seria. Indossava sempre abiti neri. I capelli alla garçon e lo sguardo tenero. Alle mani sempre un paio di guanti di pelle nera: mi piaceva pensare che ci porgesse con garbo i sacri contenuti del disegno artistico, proprio con i guanti. Lei mi considerava, ma non si sbilanciava.
Solo al liceo un docente architetto si accorse del mio talento, ma anche lui non ha insistito abbastanza. Ricordo il mio papà buono che accompagnava le mie notti insonni sul tavolo di marmo sul quale erano distesi i fogli bristol e io, con righe, squadrette e matite, con ritagli di lino che imbevevo di alcol per pulire gli attrezzi del mestiere per non lasciare aloni, con la schiena dolorante, ma felice sotto la regia di mio padre geometra. Producevo un’assonometria o la prospettiva di una fontana di città, della facciata di un portone con cortile del centro storico cittadino presso il quale mi ero recata di persona a rilevare le misurazioni… la stanchezza passava, d’un botto. Ero felice. Ero me stessa, ero un po’ papà.
L’adolescenza è stata difficile. Mia madre avrà sicuramente pensato che la mia fosse facile, magari lineare come lo era stata la sua. Ma venti anni di differenza sono importanti. I tempi erano diversi: le due ragazze, io e lei, agli antipodi. Lei era lei e io ero io, ancora.
Io mancina, io che anelavo a una guida come solo lei avrei voluto che fosse per me, io che attendevo che mi dicesse: “Fai così, bella mia”, io non sapevo cosa fare da grande. Non l’ho mai saputo. Forse non lo so ancora.
L’unico modo per non essere stordita dal disorientamento era tenere tutto in ordine. E non ho più smesso di farlo.
Mi sveglio la mattina e vado incontro alla mia giornata con grande senso di responsabilità, ma dopo poco tempo, quando subodoro situazioni di svalutazione provenienti da spinte interiori o da forze esterne, la mia voglia di nuovo straripa dall’anima e fa di tutto per uscire dai pori della mia pelle. E quindi invento una storia per bambini, scrivo un racconto, dipingo una donna con il cappello, creo biglietti di auguri, cucino un piatto delizioso.
Ora apro i suoi armadi che esplodono di colori tra i tailleur e le stoffe ancora da trasformare in opere d’arte. Per un attimo penso di dare tutto in beneficienza, ma è solo un folle attimo. Come potrei permettermi un tale affronto?
Posso imparare a cucire? A ricamare? A creare come lei?
Mi lascio cullare da un sogno, da un progetto, da una visione per la mia vecchiaia: io, tra le mura della mia casa, io persa come lei tra stoffe di cotone a fiorellini, a quadretti, a righe e a pois, tra sete e freschi di lana che con la mia solerte mano sinistra, armonizzo taglio, cucio, piego e arriccio. Io, con i capelli che smetterò un giorno di tingere e che imbiancheranno la mia testa magari con classe, capace di fare cose eccelse. È permesso e lecito pensare che la vita sia sorprendente e ti ripaghi, non subito, di quello che senti vero nel tuo intimo spazio di coscienza.
Io degna figlia di mia madre. Io come lei. Ora.
Non è un caso che faccio la pedagogista. Non è un caso che per lavoro, nelle aule di un tribunale, scelgo le migliori mamme e i migliori papà per bambini speciali. I bambini che io definisco i mancini incompresi.
Spesso io a tavola mi arrabbio per le ingiustizie sul lavoro e il mio compagno mi raccoglie.
I fili colorati li ho in testa. Gli armadi colmi di tessuti sono lì e profumano di lei. E inventerò qualcosa e sarà lei a suggerirmelo.
Ho arredato di libri anche la stanza da bagno. Compro riviste di arredamento e arredo le stanze della mia mente. Esco di casa e indosso i capi di mia madre rivisitati da una sarta che ha intuito e che non fa domande.
Indosso gli abiti di seta di mia madre perché è lì che lei deve stare, addosso a me.
Ero io, sono lei. Non avrebbe potuto essere diversamente.
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