L’autrice si presenta: Ho 43 anni, sposata e madre di Vittoria, 9 anni. Abito a Barberino di Mugello in provincia di Firenze e sono una collaboratrice domestica. I miei più grandi interessi sono la lettura e la scrittura, in particolare amo il genere introspettivo e autobiografico. Sono una persona estroversa, dinamica, mi piace stare a contatto con la gente e a detta dei miei amici ho la capacità di saper ascoltare e costruire quindi un rapporto empatico con chi mi frequenta.
Mia mamma ha il cancro. Tumore neuroendocrino in stadio avanzato, con metastasi polmonari, addominali, ossee. Il mostro che l’ha colpita è stato a lungo silente, era già con noi quando andavamo al bar a prendere un deca macchiato. Solo che non lo sapevamo, ci bastava fare una passeggiata, condividere del tempo, parlare di tutto e niente, giocare con la mia Vittoria, innamorata della nonna. Ma quando ha deciso di afferrarla con i suoi artigli di morte tutto è esploso, minandola nel corpo e nello spirito.
Non sono pessimista di natura, ma ho sempre avuto una sensibilità particolare, una capacità di cogliere le sfumature quasi al limite del soprannaturale. Per questo so che mia mamma non ce la farà. Finirà la sua vita in ospedale, tra giorni tutti uguali, pugni di pillole da ingurgitare, inutili rassicurazioni sull’essere forte, combattiva, determinata nel voler sconfiggere il mostro. Chissà, forse non rivedrà nemmeno la mia Vittoria, che tanto aspetta la nonna e nella sua ingenua testolina immagina di poter tornare a giocare come prima.
In quella casa dove adesso i giocattoli giacciono immobili, anche i disegni attaccati al muro sembrano sbiaditi, la carta crepitante come la carcassa di un insetto stecchito. Non posso trattenermi molto nella casa dei miei, il gelo mi attanaglia le ossa, e i ricordi sono troppi e troppo affilati, come lame che mi trapassano il petto. Quasi preferirei non averne. Oppure averne di così orrendi che qualsiasi situazione attuale sarebbe migliore. E invece sono lì, bellissimi e vividi e per questo ancora più dolorosi. La casa dove sono nata, cresciuta, vissuta, il bene smisurato dei miei genitori, il mio costante punto di riferimento.
E oggi. Il presente che divora attimo dopo attimo tutto quello che avremmo potuto essere e non siamo, tutto quello che avremmo potuto fare e mai ci sarà permesso. Le nostre speranze di una vita non felice, soltanto serenamente normale. Speranze di poter mangiare insieme, di tornare a casa dopo una passeggiata e fare una bella merenda, di crescere ed invecchiare insieme.
Ogni giorno, quando tutto sembrava andare bene, non vedevo l’ora di arrivare a casa dei miei. Non chiedevamo altro, mai parlato di felicità. Soltanto serenità. Potersi ritrovare seduti alla stessa tavola, trascorrere i pomeriggi di maltempo al caldo della stufa, il thè con i biscotti a merenda, la mia Vittoria che adorava fare il bagno in vasca e i capelli se li faceva lavare soltanto da mia mamma. Ora le luci sono spente, i fornelli gelati, gli avvolgibili abbassati, tutto immobile. Ma non il tempo che passa inesorabile e si porta via ogni giorno un po’ di ciò che eravamo, dei nostri piccoli e timorosi progetti, di ciò che segretamente avevamo sperato.
Fingo una normalità che mi devasta, fingo che ho e avrò sempre il mio punto di riferimento. Ma in realtà mi sento come quelle serpi che vengono investite mozzandogli la testa, continuano ad annaspare nella polvere fingendo che siano ancora intere, il corpo si contorce e tenta persino di guadagnare la salvezza sul ciglio della strada. Io sono così, faccio le cose, rido delle battute, cucino, pulisco, vado al lavoro, azzardo progetti, mi illudo di essere su quel ciglio, salva, integra, perfetta. Ma l’ estremità giace ormai inerte al centro della mia vita, alla mercé di qualsivoglia evento possa schiacciarmi. Il più delle volte non riesco nemmeno a piangere, il dolore che mi porto dentro è come un macigno. Ma poi mi capita di ritrovare qualcosa scritto da lei, ad esempio il calendario con i miei turni di lavoro in outlet, amava riportare tutto con precisione, la bella calligrafia è sempre stata la sua fissazione. Allora accarezzo piano quelle lettere, quei numeri, tentando di ritrovare un po’ di lei prima della malattia. E il dolore esplode nel petto, una fitta che squarcia la mie fragili difese, inonda gli occhi e mi fa paura, perché è assoluto, primitivo, come il grido del figlio di Dio abbandonato a morire sulla croce.
Mia mamma ha iniziato a sentirsi male in estate, era luglio. Io ogni giorno andavo al lavoro, commessa in un outlet appunto. Vedevo passare tutte quelle signore, scattanti nei loro sandali, le gambe magre e sane, le unghie smaltate, il solo pensiero allo shopping. Le ho odiate tutte, dalla prima all’ultima. Perché pensavo a mia mamma, a quando eravamo noi due al posto di quelle signore, la nostra leggerezza, il girovagare senza meta.
E la dura realtà. Il pensiero che lei quello shopping indolente e spensierato, alla ricerca di tutto e niente, non lo farà più.
Ho sempre amato l’estate, il sole, il cielo azzurro. Adesso tutto questo mi sembra così inutile, e crudele. Il cielo limpido nettato dal vento non serve a niente se non ci si può passeggiare sotto, magari tenendo mia figlia per mano, da una parte io, dall’altra mia mamma. Le giornate terse, gli alberi scossi dal vento, i colori nitidi dell’autunno, il tempo dei funghi e delle castagne.
Mio padre ne è un gran cercatore, ma passa tutto il suo tempo in ospedale. E per me i giorni si susseguono uno dietro l’altro, appesa a un telefono per sapere come sta mia mamma, attenta a percepire ogni più piccola sfumatura nella sua voce. Non vedrà la mia Vittoria crescere, fare i compiti, diplomarsi, sposarsi. E so che tutto questo colpirà mia figlia nel profondo.
Quando erano insieme rivedevo me e la mia nonna materna, pregavo il cielo che quella simbiosi perfetta durasse il più a lungo possibile perché a me aveva dato tanto. Eppure mia nonna è morta che aveva quasi 80 anni, e io più di 30. Ma ho sofferto tanto ugualmente e farei qualunque cosa per evitare a mia figlia lo stesso dolore, anzi ancora più tremendo perché a 5 anni non ci si rassegna, non si razionalizza, non ci sono pillole o gocce da ingurgitare, soltanto un vuoto assoluto da dover subire, quella frase stupida ed assurda “la nonna è andata dagli angeli, era tanto malata” che sentirà rimbombare nella sua testolina e alla quale non troverà una spiegazione.
Perché una spiegazione non c’è, è soltanto un crudele destino, una distrazione di quel Dio lontano e assente che mette i giorni uno accanto all’altro e quando guarda in basso è completamente cieco.
Comunque vada il tempo passa, non è immobile. Magari lo fosse. Lo avrei inchiodato a quel 12 luglio, prima che tutto cominciasse, che tutto fosse scoperto.
Mia figlia, la mattina precedente a quel maledetto giorno, si sveglia singhiozzando. Corro vicino al letto, ma inspiegabilmente uno spiffero ghiacciato mi gela il respiro, eppure siamo a luglio, una bella e calda giornata di sole. Le chiedo cosa c’è, se ha avuto un incubo. E lei, il piccolo petto scosso dai singhiozzi, mi fa cenno di si con la testa. La morsa gelata che mi stringe la gola aumenta. Lei mi dice: ho sognato che la nonna non c’era più. Questa è la cosa che più mi ha spaventato, che mi ha tolto ogni speranza fin dal primo momento, che rimbomba nel cervello ancora più delle parole grevi ed infauste dei medici.
Eppure tanti sono guariti dal cancro, malati con tumori avanzati che si stabilizzano. Leggo le loro storie, le vado a cercare su internet, faccio confronti e mi sforzo di sperare. Ma la mia persona più recondita, quella che soppesa la vita in tutti i suoi umori più profondi mi dice che è finita.
Cerco di andare ogni giorno da mia mamma, se non posso le telefono. E veramente non so quale forza mi impedisca di piangere davanti a lei, disperarmi. Perché avrei voluto essere ancora più a lungo figlia, tornare bambina tra le sue braccia, riassaporare quella sicurezza che sentivo da piccola, quando quell’abbraccio per me significava che tutto sarebbe andato a posto.
Tornare indietro nel tempo a quando mio babbo si alzava presto per andare a pescare ed io scivolavo nel letto accanto a lei. Sotto quelle lenzuola c’era tutto il mio mondo, nient’altro mi serviva, nessuna paura mi toccava. Invece adesso è lei che si aggrappa a me, mi sembra di tenere stretto un uccellino impaurito che cerca il suo nido e vuole risentire un po’ di quella pace che sembrava avere prima ed alla quale tanto anelava.
Siamo a novembre, il mese dei morti. Quest’anno siamo andate io e mia zia a mettere i fiori al cimitero. Una visita frettolosa, un’incombenza sbrigata il più velocemente possibile, un’angoscia forzosamente taciuta l’una all’altra, un presagio fin troppo reale, anche in quell’occasione ricordi troppo dolorosi da sopportare.
Per noi, io, mia zia e mia mamma quella è sempre stata un’occasione per ritrovarsi, fare qualche commento su chi incontravamo e dopo essere uscite dal cimitero condividere il piacere di un bel caffè caldo. Ma il tempo non è immobile ed i ricordi, ancora e soprattutto i ricordi, sono fatti per darcene dolorosa consapevolezza. Eppure questo novembre sarebbe anche bello. Tipiche giornate autunnali, le foglie gialle ed arancioni, l’aria frizzante. Guardo questo cielo che non vuole saperne di noi, dello sconquasso nelle nostre vite, di quando lo guardavamo con animo leggero.
L’altra sera ero in terrazza dopo cena, faceva già buio e fumavo una sigaretta. C’erano miliardi di stelle, un’aria tersa e pungente, profumo di caminetti accesi. All’improvviso un bagliore che attraversa la volta buia, ma ricamata di piccole luci. Una stella cadente. A novembre. L’estate scorsa le ho cercate disperatamente per poter esprimere il mio desiderio più grande. Non sono riuscita a vederne alcuna. Quella scia luminosa mi è sembrata un segnale, qualcuno mi mandava a dire che non si era del tutto dimenticato di noi. E ho segretamente sperato, creduto in un miracolo che forse sarà tutto nostro. Perché ho imprecato tante volte contro quel cielo muto e ingiusto, ma la fede è un dono e non è semplice averla come non lo è altrettanto rinnegarla.
Quella sera sono andata a dormire più serena. Il mio è un sonno profondo, quasi mortale, un totale stato d’incoscienza. Il crollo che subisco dopo una giornata passata ad essere il più possibile normale, con mia figlia, con mio marito, con le persone che mi chiedono notizie di mia mamma. Arrivo alla sera desiderosa soltanto di chiudermi in casa mia, quella che ora è diventata il mio rifugio. Voglio solo cucinare, cenare con mio marito e la mia Vittoria, aiutarla a lavarsi e metterle il pigiamino. E poi andare sul divano e guardare la tv e il più delle volte cedere a un sonno pesante e senza sogni. Perché io di notte non sogno, mi sveglio la mattina con la coscienza ancora inerte, e spero che la mia vita reale sia un sogno dal quale potermi svegliare. Ma il tempo non è immobile, così come la realtà dei fatti.
E allora bisogna essere coraggiosi, e anche un po’ rassegnati al proprio destino, che forse potremo leggermente modificare, ma al quale certo non potremo sfuggire. Credere negli affetti più veri. La mia Vittoria, l’unico grande ed indiscutibile scopo della mia vita. Mio marito, che non chiede, non si intromette, non vuol sapere particolari della malattia perché ne soffrirebbe troppo. Ma che al momento giusto, da presenza silenziosa ma costante, sa uscire allo scoperto ed offrire la solidità di una roccia.
E mio babbo, che nel dolore profondo che prova sta mostrando una forza ed una dignità che mai gli avrei riconosciuto. Se dovesse perdere mia mamma ne sarebbe schiacciato, ma sono altrettanto sicura che in noi troverebbe una nuova ragione di vita.
E mia mamma. Di lei non voglio parlare oltre. Il solo pensiero che possa non esserci più mi obnubila la vista, il dolore è così potente, sembra un urlo primordiale che nasce dalle profondità del mio essere. Mina dall’interno le mie fragili difese.
Non voglio pensarci.
È passato tanto tempo da quel marzo 2009 quando io aspettavo Vittoria e con mia mamma siamo andate da mia zia. Ci siamo scattate alcune foto, la luce del giorno che stava calando è perfetta, i colori caldi, l’espressioni dei volti naturali, persino mia mamma ha un riso spontaneo, bellissimo, che in quel preciso istante assomiglia molto alla felicità.
Non può essere tutto finito, perduto.
Il tempo non è immobile.
Nel bene, ma nemmeno nel male.
Mia mamma è nella brezza delicata che accarezza il grano appena germogliato.
Mia mamma è quando appoggio la testa sul cuscino e sento l’odore fresco del bucato.
Mia mamma è nei colori caldi dell’autunno, nel freddo pungente dell’inverno, nel lieve profumo dei fiori primaverili, nel refrigerio serale di una torrida giornata estiva.
Mia mamma è nel mio cuore, sempre.
Mia mamma è nei miei occhi, quando li alzo al cielo.
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