L’autrice si presenta: Sono un’ insegnante appassionata di scrittura creativa. Amo le isole, la brezza marina, i libri e gli alberi genealogici. Per me la narrazione è una porta sull’infinito e, nello stesso tempo, uno scrigno della memoria
Storia vera di Lina S. raccolta da Maria Elisa Zaniboni
La nonna abitava in una casa bianca in mezzo al frutteto, protetta da un cancello di ferro battuto. Ricordo perfettamente la facciata, ingentilita da un tralcio di glicine e percorsa da una ragnatela di crepe. Sotto due grandi finestre si stagliava la grande porta di ingresso, che per me rappresentava l’ingresso a un mondo incantato, fatto di ripostigli segreti e mobili antichi.
E soprattutto c’era lei, la nonna, l’angelo custode delle mie estati. Il suo grembiule a quadri era sempre pieno di biscotti, pesche mature o pulcini appena nati. Quando trascorrevo le vacanze con lei sorrideva sempre e mi definiva “il suo sole”. L’ultima volta che la vidi, però, stava piangendo. Papà aveva litigato con lei, per un motivo che nessuno volle dirmi, ed eravamo ripartiti all’improvviso. Non ero neanche riuscita a darle un bacio e non sapevo che, per dieci lunghi anni, non l’avrei più rivista.
Mi ero limitata a salutarla dal finestrino mentre diventava sempre più piccola, fino a scomparire tra gli alberi.
Da allora, mio padre innalzò un muro di silenzio e la escluse dalla nostra vita. Niente più estati in campagna, niente auguri di Natale. Col tempo l’ho riposta nella soffitta della memoria, insieme ai giochi e ai miti della mia infanzia. Eppure, la nonna non era una fiaba. Le sue mani ruvide mi avevano accarezzata, mi avevano medicato le mie sbucciature e asciugato le mie lacrime. Ho respirato in numerosi abbracci il suo odore di frutta e fieno fresco.
Stamattina, dopo un decennio, ho deciso di tornare da lei. È stata un’idea improvvisa, che forse covava da tempo tra le braci del mio inconscio. Ho preso la mia patente nuova di zecca e le chiavi dell’auto di mio padre. Lui non sa nulla; non ho avuto il coraggio di dirglielo. La casa della nonna è lontana dalla strada principale. L’unico collegamento è un sentiero stretto e sterrato, che si snoda tra i peschi con un tracciato serpentino. Lo percorro sollevando una nube di polvere, con il cuore a mille. Apro il finestrino: il profumo dei frutti mi sfiora come una carezza, insieme al frinire delle cicale. Il sole di giugno inonda i frutteti e mi regala emozioni antiche, che credevo di aver dimenticato.
Mentre mi perdo tra i ricordi, la casa spunta all’improvviso tra gli alberi, come evocata da un incantesimo.
Il tempo non è stato gentile. Il cancello di ferro battuto, unico vezzo di quella dimora campagnola, è divorato dalla ruggine. Il glicine si è allungato in maniera scomposta, coprendo parte delle finestre coi suoi grappoli lilla. L’intonaco cade a pezzi. Con quelle chiazze grigie e quel glicine arruffato, la casa sempre proprio un gatto randagio.
Mentre scendo, vengo trafitta da un pensiero improvviso. E se la nonna è morta? Il cancello cede sotto la mia mano, si apre cigolando. Noto che la facciata ha perso ampie fette di intonaco. La nonna è morta e io non l’ho neppure saputo. Non la vedrò mai più. Non potrò chiederle scusa. Non saprà mai che oggi sono venuta a cercarla.
Giro a piccoli passi attorno alla casa, notando le erbacce che sono spuntate un po’ ovunque. All’improvviso, la porta scricchiola. Sento il rumore di un catenaccio. La porta si apre e la nonna compare nella luce estiva. I suoi capelli sembrano cotone, il viso è più pallido e grinzoso rispetto ai miei ricordi. Ma ritrovo i suoi occhi di un azzurro chiaro, pulito, innocente come il cielo della campagna. Occhi che diventano umidi, si trasformano in mare. La nonna si porta una mano alla bocca. Mi viene incontro allargando le braccia, come quando ero piccola. La stringo forte: sta tremando e il suo corpo sembra di cristallo. Le nostre lacrime si mescolano. Più tardi, la nonna mi invita in cucina, dove tutto è rimasto uguale: il grande camino, le trecce di aglio appese al soffitto, i tegami di rame che splendono sulle pareti.
Dopo lunghe chiacchiere, sazia di commozione, mi rivolge uno sguardo esitante.
«Tuo padre è ancora arrabbiato?».
Io chino la testa.
«Non lo so» bisbiglio «non ne abbiamo più parlato». E poi, una domanda impellente mi sguscia dalle labbra.
«Ma cos’è successo quel giorno, nonna?» un tremito impercettibile la attraversa. Poi comincia a raccontare, e a ogni frase pare che si tolga una pietra dal cuore.
«Mi dispiace tanto. Sono io che ho sbagliato. Mi ero tenuta quel segreto per tanti anni, cercando di soffocare il dolore. Ma quel giorno, quando abbiamo aperto il baule, ho perso il controllo. Sai, tuo padre adorava il nonno. Lo ammirava, cercava continuamente la sua approvazione. Si irritava se dicevo qualcosa contro di lui. Quando tuo nonno morì, aveva circa la tua età e per lui fu un dolore atroce. Sai… tuo nonno non era un cattivo marito. Forse gli avrei anche voluto bene, nonostante tutto».
«Nonostante…cosa?».
«Quando ero ragazza non c’era molto romanticismo. Nelle campagne, il matrimonio era una questione pragmatica, un affare. Avevo quindici anni quando mio marito si presentò dai miei genitori: era un signore elegante, di vent’anni più anziano di me. Aveva fatto fortuna con il commercio agricolo e ora cercava una moglie, possibilmente giovane e bella. Io ero molto graziosa, con gli occhi chiari e un manto di capelli biondo rame. Il nonno mi aveva notata e mi chiese in sposa per l’anno successivo, in cambio di alcuni favori economici. Io avrei avuto una casa bella e spaziosa, oltre che cibo in abbondanza. Così, mentre ero nell’aia a nutrire le galline, fu deciso il mio destino. senza chiedermi alcun parere. Ci sposammo e ci trasferimmo qui. Sì, mio marito non era cattivo. Certo era un uomo serio, fosco. Parlavamo poco. Era spesso accigliato e preso dalle preoccupazioni. Mi metteva anche un po ’ di soggezione; era alto, robusto, con spalle larghe e mani che parevano badili. Il lavoro lo impegnava molto e io ero sempre sola. Come se non bastasse, poco tempo dopo il matrimonio, mi annunciò che doveva andare alcuni mesi in Svizzera per un certo lavoro. Non era certo il periodo migliore per viaggiare: la guerra stava incendiando l’Europa. Ma lui non era tipo da spaventarsi, e partì».
La nonna mi racconta i disagi e le sofferenze di quel periodo: la penuria di cibo, la paura dei bombardamenti. Il ronzio degli aerei da guerra che si alternava a lontani echi di mitraglia, sulla linea gotica.
«E poi arrivarono i tedeschi. Un pomeriggio entrò una squadra di cinque uomini, tutti seri, dallo sguardo gelido. Mi urlarono parole che non capivo, rubarono le galline e i maiali. Se ne andarono dopo aver quasi esaurito le mie scorte di cibo. Uno di loro, ubriacatosi, aveva incendiato il tavolo della cucina con un accendino. Non avevo ancora finito di sistemare i danni, quando un altro uomo venne a bussare alla porta. Dalla finestra avevo visto che portava il fucile e l’uniforme tedesca, ed ero andata ad aprire con un nodo alla gola. Fu con un certo sollievo, quindi, che mi trovai davanti un ragazzo impacciato, poco più che adolescente. I suoi occhi blu sembravano più spaventati dei miei. In un italiano approssimativo, mi fece capire che era l’unico sopravvissuto della sua squadra e che gli serviva un rifugio. Si presentò come Fritz, sembrava gentile. Gli offrii la stanza degli ospiti e lo accolsi come un fratello. Col passare dei giorni, la paura lasciò il posto alla confidenza. Fritz era sorridente e spiritoso. Sapeva dipingere. Vedi quel piccolo quadro di fianco al camino? Me lo dipinse lui. Era un fine paesaggista» si interrompe.
«E poi cosa accadde?». Sento una strana tensione allo stomaco.
«Nulla» dice bruscamente, alzandosi «non accadde nulla. Ad un certo punto, Fritz fu richiamato. Partì un giorno di temporale. Pioveva, e c’erano dei tuoni tremendi…».
La nonna si alza, apre un cassetto e comincia a riordinare degli utensili. È una scusa per nascondermi la sua espressione? La sua voce sta tremando.
«Il nonno tornò lo stesso giorno, e non gli piacque che Fritz avesse soggiornato a casa mia. Così prese il quadro che aveva dipinto per me, tagliò in due la tela e lo nascose in un baule. L’ho ritrovato solo il giorno in cui litigai con tuo padre. Ecco, fu allora che gli dissi la storia. Vedendo il quadro, mi è uscita una rabbia che non pensavo neppure di avere. Speravo di uccidere quel drago con il silenzio, ma in realtà gli avevo dato da mangiare. E in quel momento si è risvegliato. Ho usato parole orribili contro il nonno… non riuscivo a fermarmi. Tutta la rabbia, tutto il dolore sono usciti come un fuoco devastante. E tuo padre non mi ha più perdonata».
«Tutto questo per un quadro, nonna?» di fronte al mio interrogativo, la nonna si stringe nelle spalle. Mi dice confusamente che deve raccogliere le uova, e scompare nel cortile sul retro. A quel punto, decido che bisogna ricomporre i cocci. Non è possibile che mio padre abbia cancellato la nonna dalla nostra vita, per un semplice sfogo. Mi avvicino al telefono che troneggia in fondo alla stanza. Non sapevo come avrebbe reagito mio padre, ma di certo non ero preparata alle sue lacrime.
Lo sento singhiozzare nel ricevitore, come un bambino. Sono terribilmente in imbarazzo: non l’ho mai visto piangere. Mi chiede come sta la nonna, se ha voglia di parlare con lui. Gli prometto di passargliela appena torna dall’aia. Ma c’è qualcosa che mi pungola e non mi convince del tutto. Prendo un grande respiro ed esclamo:
«La nonna ha aggiustato il quadro. Quello che avete trovato nel baule e che vi ha fatto litigare».
Segue un lungo silenzio.
«Quale quadro? Ah, sì, c’era anche quello, ma é successo quando ha visto il cappello. Te l’avrà raccontato, no?».
«Il… cappello?».
«Avevamo trovato un vecchio baule in cantina, sotto una pila di stracci, mentre la aiutavo a fare ordine. Mi disse che era un baule di suo marito; non l’aveva mai aperto. Diedi un’occhiata. Oltre alla tela, fra registri e quaderni, c’era un berretto militare tedesco, incrostato di fango. Tua nonna lo ha fissato a lungo, poi se lo è stretto al petto come un dondolando avanti e indietro. Ha iniziato a gridare. Continuava a urlare insulti terribili, piangendo. E quando le ho detto di smetterla…Bé, a quel punto mi ha sganciato la bomba».
«Quale bomba?».
«Ha detto esattamente così: continui a difenderlo, e non era nemmeno tuo padre».
La nonna rientra e capisce subito con chi sto parlando. Prende il ricevitore con aria insicura, ma poi il suo viso sembra sciogliersi. Parla a lungo, sorride. Raccolgo spezzoni di dialogo, da cui capisco che mio padre ha accettato un invito a pranzo. Il primo dopo dieci anni.
«Ho tanta voglia di abbracciarti. E poi devo spiegarti il resto. Spero che capirai». Abbassa la cornetta. Si respira un’atmosfera leggera, una sorta di stanchezza felice, come quando fai mette fine a una battaglia inutile. La nonna mi guarda, e decide di liberarsi dall’ultima scheggia che si portava dentro.
«Tuo padre nacque da una notte. Una sola. La penultima. Credimi, non volevo tradire mio marito. È solo che… Fritz aveva ridato colore alle mie giornate. Solo lui sapeva farmi ridere. Parlavamo lingue diverse, ma sotto la pelle eravamo uguali. È stato come bere un sorso d’acqua dopo una lunga sete, tutto qui. Non pensavo al futuro, mi illudevo di vivere un eterno presente. Vedi, Fritz non fu affatto richiamato. Quella notte c’era un temporale tremendo. Stavamo cenando. Fritz intingeva nel vino dei bocconi di pane e me li portava alle labbra, ridendo. I tuoni facevano un tale frastuono, e il vento ululava così forte, che non abbiamo sentito la porta. All’improvviso ci voltammo e mio marito era lì, sulla soglia, immobile come una statua. Ci fissava con occhi freddi come l’acciaio. Oh, non disse una parola. Il suo era un furore silenzioso, quello peggiore. Mi attanagliò un braccio e mi spinse verso la cantina. Prima che mi chiudesse a chiave, vidi confusamente Fritz che si alzava in piedi. Poi, non seppi più nulla. A un certo punto sentii uno sparo… ora sono certa che fosse una fucilata, ma allora mi convinsi che era solo un tuono. Rimasi chiusa al buio due interminabili giorni, senza cibo né acqua. Poi, mio marito aprì la porta e mi chiese di preparargli la cena. Mentre lavoravo mi seguiva con gli occhi, senza parlare. In un angolo della cucina c’era una vanga coperta di fango. Quella vista mi diede la nausea, ma non osai chiedere nulla. Mi disse che Fritz era scappato nei campi. Ma sapevo che non era così. E quel berretto… forse mio marito lo trovò in casa, qualche giorno dopo, e lo nascose in fretta. Forse lo tenne come trofeo. Chissà dove ha sepolto Fritz… L’unica consolazione è che, in un certo senso, lui è rimasto sempre qui con me. Rivedo i suoi occhi in tuo padre. E li rivedo soprattutto in te. Hai il suo stesso sguardo».
Si lascia andare su una sedia, con un debole sorriso. Mi avvicino e la abbraccio, senza parlare.
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