“Non è cosa da poco, sai, lo sforzo di non aspettarti più. Quando ci penso, mi rendo conto che ho passato la maggior parte del nostro tempo così, ad aspettarti. Prima ho aspettato che tu mi notassi, quando il tuo sguardo mi scivolava addosso senza mai fermarsi. Poi che decidessi di fare un passo verso di me, soltanto un passo in avanti, non era difficile, eppure quanto ci hai messo…Dopo, a cose fatte, mi hai confessato che allora t’intimidivo, che ero il tipo di donna che tiene a distanza senza bisogno di fare un gesto. Non ci ho mai creduto sul serio, ma mi sono guardata bene dal dirtelo. Più tardi, ti ho aspettato a casa mia, nell’appartamento di rue Campagne-Première: infilavo gonne chiare e leggere che cambiavo tre volte prima che tu finalmente comparissi, ansante e mortificato, scusandoti per il ritardo e per il poco tempo che avresti avuto da dedicarmi. C’era anche un’altra che ti aspettava, a Parigi. Saresti andato da lei appena uscito da casa mia. Era entrata nella tua vita due anni prima. Pensava di essere la sola. Ho aspettato che tu la lasciassi, che mantenessi la promessa di lasciarla. Eppure io non ti avevo chiesto niente. Eri stato tu, un giorno, a proporlo di punto in bianco. Io ti avevo ascoltato senza rispondere. Probabilmente avrei dovuto esprimere la mia gioia, felicitarmi con te per quel sacrificio. Forse ti aspettavi dei plausi, degli incoraggiamenti, una ricompensa. Io non vedevo il motivo di darteli. Una sera, ti sei presentato alla mia porta dicendo soltanto: è fatta. Ti ho lasciato entrare, ti ho abbracciato, volevi che ti stringessi forte, ho stretto più forte che ho potuto, non è bastato. Poche settimane dopo, tornavi all’ovile. A quel punto, avrei potuto decidere di non aspettarti più. Jeanne mi scongiurava di rinunciare a te. Non le ho dato ascolto. Ero ancora innamorata, pronta a perdonarti tutto. Ho ricominciato ad aspettarti”.
Anche di Philippe Besson vi ho da non molto consigliato altro (E le altre sere verrai? sempre edito da Guanda) ma il cinquantenne parigino ha davvero tanto da dire a noi donne e non solo.
Scritto in forma epistolare, da parte di Louise a Clément, questo romanzo è la storia di cinque luoghi, cinque fughe, cinque ritorni sempre allo stato di partenza (e questa è la prima metafora del viaggio che l’autore sviscera alla perfezione). La relazione tra Clément e Louise è finita e Louise decide di partire, di allontanarsi da Parigi, staccare il telefono, rendersi irraggiungibile. Spera, allontanando fisicamente il suo cuore da quello dell’uomo che ha scelto un’altra e non lei, di riuscire a smettere di pensare a lui, smettere di amarlo. Fugge. Prima L’Avana e Trinidad, poi New York per una terapia ad urto (lì si erano più volte amati), poi Venezia, poi il viaggio nel viaggio, il mito dell’Orient-Express, infine il ritorno a casa, a Parigi. Cinque lettere, cinque sfoghi, cinque preghiere, cinque recriminazioni, cinque auto-analisi: mai nessuna risposta, più Clément tace, più Louise crea universi di spiegazioni, giri vorticosi di squallide e pietose giustificazioni.
“Non mi hai lasciato niente, soltanto il ricordo. E il ricordo rallenta la convalescenza”.
La fine di un amore, l’abbandono, la collera, la rabbia, le ginocchia pronte a chinarsi a terra infinite volte, gli occhi aperti eppure ciechi, la patetica lacrima alla quale ci aggrappiamo e che usiamo come arma credendo, sperando, serva, smuova, faccia tornare.
Incredibile la capacità chirurgica che ha Besson di mostrarci quanto possiamo essere stupide.
Philippe Besson, Come finisce un amore, Guanda
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