Ieri era il mio domani

Cuore
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Ieri era il mio domani è una delle storie più apprezzate del numero 24 di Confidenze e ve la riproponiamo qui nel blog

Mi guardo intorno, assorbo l’odore del bosco, e con gli occhi bevo i verdi, così intensi e diversi tra loro. Gabriele aveva ragione, qui è meraviglioso. Non l’ho mai sentito così vicino da quando se n’è andato

 

storia vera di Maria Teresa G. raccolta da Simona Busto

 

Il cielo terso sulla vallata sa ancora donarmi un’emozione, smuove il cuore atrofizzato per donargli un palpito di vita, un sussulto gioioso di cui mi sento semplice testimone. Il cuore di Gabriele era in questa valle incastonata tra le montagne. Non posso dimenticarmene, non posso guardare oltre. Sono rimasta vedova cinque anni fa, e ancora mi pare impossibile.

Non me ne capacito. Ho abbandonato l’analista dopo due sole sedute, e mi sono dedicata a ore di frenetica attività per cercare di non pensarci. Mi manca quanto il primo giorno, il dolore non si è attenuato, e neppure posso dire di aver trovato un conforto in qualcosa o qualcuno. Per questo sono tornata nella valle, per guardare il modo in cui il verde primaverile dei monti si staglia contro l’azzurro del cielo, in un quadro a cui nessun pittore saprebbe rendere giustizia.

Siamo stati molto felici nei 12 anni che abbiamo vissuto insieme, ma questo pensiero non è consolante, anzi acuisce la nostalgia e il rifiuto di rassegnarmi.

Posso provarci finché voglio, ma perdere un marito di soli 43 anni in uno stupido, evitabilissimo incidente d’auto è qualcosa che non riuscirò mai a metabolizzare.

Uno stridio di freni sull’asfalto e un tonfo in piena notte: così l’ha raccontato chi ha assistito alla scena, o almeno questo è ciò che ho letto sui giornali, perché io con quei testimoni non ho mai parlato. Sono andata al processo però, dovevo vedere in faccia la donna che l’ha travolto sulle strisce e lei, soprattutto, doveva leggere l’odio e il disprezzo impressi nei miei occhi. È stato orribile, devastante, avrei voluto gridarle in faccia quel che mi aveva fatto, avrei voluto colpirla, avrei voluto… non so nemmeno io cos’altro avrei voluto fare. Perché il suo sguardo, la paura e lo sgomento che vi avevo letto, mi avevano calmato all’improvviso. Non avevo smesso di odiarla, ma all’odio si era unita la commiserazione, e la consapevolezza che nulla mi avrebbe restituito Gabriele, nemmeno se avessi preso a pugni in faccia quel destino che me l’aveva tolto.

E adesso, dopo tanti anni, sono tornata qui, nella casa che affittavamo ogni anno per le vacanze. Cerco di passeggiare per i boschi, di concentrare la mente sulle bellezze che lui sapeva farmi cogliere in modo straordinario. Sento il canto degli uccelli e i fruscii nel sottobosco. Le farfalle mi passano accanto, sfiorandomi con le ali colorate. Mi fermo a osservarle, vorrei poter provare le emozioni di un tempo, vorrei sentirmi di nuovo viva.

 

Riprendo a camminare, senza più nemmeno guardarmi intorno. Raggiungo il laghetto. Ha conservato la bellezza di un tempo, inalterata. Mi chino a sfiorare l’acqua gelata. Un brivido. Una sensazione. La vita.

Gabriele non vorrebbe che reagissi così. È ciò che mi sento ripetere più spesso. Ma loro che ne sanno cosa vorrebbe mio marito? Sono stanca di frasi fatte, di facili giudizi e di sguardi compassionevoli. Per questo ho tagliato fuori la maggior parte delle mie amicizie. Sono rimasti solo quelli che m’invitano per una pizza e non fanno domande, né cercano di presentarmi qualsiasi uomo disponibile, seguendo l’assurda teoria del chiodo scaccia chiodo.

Non voglio tornare a volare fino a raggiungere le stelle, vorrei solo smettere di soffrire, almeno per qualche ora al giorno.

Scorgo un movimento nei cespugli fitti dall’altra parte della pozza d’acqua e resto immobile, gelata. Le foglie si muovono, il fruscio si fa insistente. È qualcosa di grosso. Un brivido mi corre lungo la spina dorsale. E se fosse un cinghiale? Forse se resto immobile e non lo disturbo non mi attaccherà. La paura mi paralizza.

So che dovrei arretrare lentamente e allontanarmi da lì senza fare movimenti bruschi, ma non ci riesco. Sono inchiodata sul posto dal panico.

Il cespuglio si muove ancora, sembra animato di vita propria. Poi le foglie si aprono all’improvviso e vedo un muso sbucare dal verde.

Butto fuori l’aria. Non mi ero accorta di averla trattenuta nei polmoni. Un sorriso mi nasce spontaneo sulle labbra, e quasi mi lascio cadere sulle foglie secche e sul muschio per il sollievo.

Il capriolo muove la testa a destra e a sinistra, forse sono sopravento e non sente il mio odore, allora esce dal nascondiglio per sporgersi a bere.

Lo guardo a occhi spalancati, le labbra socchiuse, temo che un battito di ciglia possa spezzare l’incanto. Il suo corpo freme, nervoso anche in quel momento di quiete, le gambe lunghe sembrano pronte a scattare.

Mi mordo il labbro, e non posso fare a meno di chiedermi come avrebbe reagito Gabriele se avesse assistito a quella scena. Resto lì, sospesa nel tempo, persa in uno spazio incantato tra la memoria e la realtà.

Il capriolo alza la testa di colpo, i grandi occhi castani mi guardano, rimane immobile per un solo istante, poi schizza via e scompare nel fitto sottobosco. Chiudo gli occhi.

Ho bisogno di metabolizzare quel che ho visto, ho il cuore in gola e le dita strette sulla collanina appesa al collo. Mi chino a guardarla: è stato il primo regalo di Gabriele, anni prima del nostro matrimonio, una piccola croce con tre diamanti incastonati. Stringerla è stato un riflesso. Forse ho avuto la sensazione che lui fosse lì, a guardare con me. Mi guardo intorno, assorbo l’odore del bosco, la sua fresca umidità, e con gli occhi bevo i verdi così diversi tra loro, tutti intensi fino all’impossibile.

Gabriele aveva ragione: qui è meraviglioso. Non l’ho mai sentito così vicino da quando se n’è andato. Eppure mi sembra di stare meglio, la sua presenza non è opprimente come mi capita di solito, è qualcosa di forte ma gioioso.

Torno lenta sui miei passi. Mi pare di sentire le sue dita che sfiorano le mie. Accarezzo quella sensazione.

La casetta di legno mi accoglie con il suo odore particolare, il cigolio del parquet sotto i piedi mi dà uno strano senso di conforto.

 

Mi siedo al tavolo della cucina e guardo l’orto incolto dalla finestra. Nella mia mente sta prendendo forma un’idea assurda e meravigliosa.

Prendo il cellulare. «Buongiorno. Sono Maria Teresa, la sua affittuaria. Avrei una proposta da farle».

Quando riattacco ho il cuore in gola. Il proprietario ha accettato e ora mi sembra tutto una follia. Forse ho agito troppo d’impulso.

Mentre ero lì, a guardare il capriolo, ho pensato che ho passato anni a lottare contro il ricordo di Gabriele, contro la felicità che abbiamo vissuto insieme e che ora si trasforma in sofferenza inaudita. Ma per poter superare il dolore è necessario prima accettarlo. E io a quel punto non sono mai arrivata. Anzi, potrei dire di aver lottato per respingere l’accettazione.

Mi guardo di nuovo intorno. Non riesco neppure a immaginare un posto migliore di questo per andare incontro al ricordo di mio marito. Lui amava questo posto alla follia. Rimetterò in sesto l’orto, e con la mia piccola rendita potrò vivere bene. Non mi mancherà nulla. Sospiro e mi stringo la collanina al petto. La sensazione è quella di un abbraccio. Non credevo di voler ricominciare a vivere, invece di lasciarmi esistere. Eppure è così. Ora lo so. Adesso so come fare. ●

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