“Questa sera Claude è morto. L’amavo. La mia vita si ferma e comincia nello stesso tempo. Per evitare di nominare l’evento dico prima e adesso… Prima, come se si trattasse di un paese, vasto territorio lussureggiante, il mio continente. Prima, ovvio, era bianco, luminoso, leggero, evidente. Prima, era liscio, a volte eccitante, eravamo immortali e cinici. Eravamo vivi. La morte degli altri non ci turbava, usavamo verbi come «crepare», eravamo eroi. Eravamo spirituali e nervosi. Guardavamo ai dettagli, eravamo spesso insoddisfatti, impazienti. Pretendevamo che la vita fosse perfetta. Avevamo i nostri criteri, in tutta innocenza. Mettevamo in scena la nostra ordinaria arroganza. Organizzavamo i nostri drammi quotidiani, rimproveravamo l’altro se non aveva comprato il pane. Era prima, era altrove. Eravamo noi. (…) Rassegnazione impossibile. Sentirsi soffocare, il nodo che si stringe, la cravatta che non ha mai portato, l’adolescenza che non finisce più. Un classico. Allora ci si avvicina al bordo, per valutare la densità del vuoto, con la paura di cadere, di gettare davvero la spugna. Allora ci si raggomitola per dimenticare l’abisso, con la testa sprofondata nel cuscino, gli occhi chiusi, i tappi nelle orecchie. Non si sopportano più i rumori del mondo, gli schiocchi, gli scricchiolii, i sospiri. E malgrado tutto, nessun lamento, mai, salvo in casi estremi, quando non si riesce più a guidare, a mangiare, a lavorare. Allora si è costretti ad attirare l’attenzione. Ma se ne farebbe volentieri a meno, si cerca di sfuggire agli sguardi degli altri. Quando è possibile, si simula, si dissimula, si schiva, ci si confonde con la tappezzeria, si scompare”.
Brigitte Giraud (vi ho già consigliato il suo L’amore è sopravvalutato, sempre edito in Italia da Guanda) con questo breve ma lunghissimo scritto autobiografico – sono poco meno di 90 pagine – ci mette a conoscenza del suo lutto, del suo essere passata nel lasso di un momento, da 20 anni di relazione e matrimonio a uno stato di vedovanza. Claude, poco più che quarantenne, cade dalla moto del fratello di Brigitte. Una operazione chirurgica alla spalla che sembra riuscita. L’avvento della morte per complicanze, “Sento una sfilza di parole come emorragia, arresto cardiaco, collasso del lato destro. Sento collasso. Sento rianimazione. Sento una tempesta di grandine, un’irruzione”.
Le parole che Brigitte usa per narrare a noi e forse a se stessa i giorni che vanno dal momento dell’incidente alla tumulazione della salma sono lucide, dirette, senza poesia. La poesia può riempire lo spazio lasciato vuoto da un amore perduto, da un desiderio irrealizzabile, non può salvarci nell’immediato stupore del passaggio dalla vita a qualcosa che non conosciamo. C’è il corpo da vestire, c’è il bambino da andare a riprendere a scuola che va messo a conoscenza della perdita del padre, ci sono gli amici da avvisare, gli abbracci consolatori da razionalizzare nell’economia di giorni concitati, un trasloco che era stato iniziato e che va terminato, la notizia di una accelerata anomala che fa pensare ad un incidente meno accidentale. C’è l’amore che hai dentro, che ti perimetra il cuore, che è area densa, e che devi capire come fare ad abitare, dove cercare in quel corpo immobile quello al quale ti sei stretta, unita.
“Cosa me ne faccio di tutto il mio amore per lui? Che cosa? Gli trovo posto su uno scaffale della libreria?”
Brigitte Giraud, E adesso?, Guanda
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