“Io mi chiamo Dorothy Seymour, ho quarantacinque anni, i tratti appena toccati dal tempo, perché niente nella vita mi si è presentato seriamente. Sono sceneggiatrice – non senza successo – e piaccio ancora molto agli uomini, probabilmente perché anche loro piacciono a me. (…) Paul Brett è molto, molto bello. Rappresenta gli interessi della RKB e di altre firme cinematografiche. È elegante, piacevole e bello come un santino. A tal punto che Pamela Chris e Louella Schrimp, le due più grandi vamp della nostra generazione, quelle che da dieci anni a questa parte sgranocchiano sugli schermi le fortune degli uomini, i loro cuori, e i lunghi bocchini da sigaretta, se ne sono a turno incapricciate e si sono sciolte in lacrime dopo la rottura. Paul ha dunque un glorioso passato. Ma guardandolo, quella sera lì, malgrado le circostanze, io non vedevo in lui che un biondino qualsiasi. E un biondino più che quarantenne. E questo è deprimente. Ma bisognava farlo: dopo otto giorni di fiori, di telefonate, di sottintesi e di uscite in comune, una donna della mia età deve cedere, almeno nel mio paese. Il giorno prestabilito era arrivato, e correvamo a centoquaranta verso la mia modesta dimora, mentre erano le due del mattino e, per una volta, io deploravo aspramente l’importanza dei rapporti sessuali nel comportamento dell’individuo. Avevo sonno. Ma avevo già avuto sonno la sera prima e tre giorni prima, non avevo più diritto a una scusa. Il «Sicuro, tesoro» comprensivo di Paul sarebbe stato sostituito, me lo sentivo, da «Dorothy, che cosa succede, puoi dirmi tutto sai…» inevitabile. (…) Mi sciolsi in un orribile sospiro, e Paul fece un grido appena soffocato. Nei fari, schizzato come un folle o piuttosto come uno di quegli spaventapasseri come ne avevo visti in giro per la Francia, nei campi, un uomo si gettava verso di noi”.
È Lewis. L’uomo che manda fuoristrada la macchina in cui stanno viaggiando una annoiata Dorothy e un innamorato Paul si chiama Lewis. Giovanissimo, bellissimo, enigmatico. In poche parole, incomprensibile e quindi irresistibile. ‘Fosse capitato un po’ prima’, pensa Dorothy, collezionista di fallimenti matrimoniali, mentre rimbocca le coperte al povero ragazzo che come una foglia o una minaccia si era scaraventato addosso alla vettura del suo corteggiatore.
C’è un genere che amo molto e si chiama giallo. La blu Sellerio ne pubblica di strepitosi. Ma di ancora più strepitoso ha pubblicato questo gioco della Sagan (ricordate Bonjour, tristesse? È lei), una composizione che di nero ha solo i morti ammazzati ma che brilla per la precisione dell’analisi di una certa società, quella che lo scorso secolo animava la fabbrica del cinema, e per la chirurgica dissezione del carattere femminile nuovo, quello della donna che si impadroniva finalmente di se stessa, delle sue pulsioni e dei suoi desideri.
La Sagan scrisse La guardia del cuore per togliersi di torno un ultimo fardello che aveva con Lafford, il suo vecchio editore. Succede spesso, in letteratura. Che i libri architettati, pesati, misurati, laborlimati, riflettuti, siano roba tremenda e che al contrario le cose scritte senza chiedersi se sia proprio il caso, le cose vere, siano capolavori dei quali, autore compreso, in pochi si accorgono. Lewis si innamora di Dorothy. Lewis diventerà un grande attore e vincerà l’Oscar. Lewis salverà Paul da un sicuro annegamento. Lewis regalerà a Dorothy una Rolls Royce. Durante un uragano Lewis bacerà Dorothy. Sullo sfondo, tre morti ammazzati. Chi è l’assassino? E perché?
Dalla pubblicazione di questo libro, dal rapporto tra Lewis e Dorothy (non vi anticipo nulla sulla natura dello stesso), sono passati 50 anni. Ci può insegnare, tra una risata – e si ride tantissimo grazie alla trama e soprattutto allo stile della scrittura – e l’altra, molto sulle donne che siamo o che dovremmo tornare a essere: libere. Libere di dire no. Ma soprattutto libere di ridere sempre.
Françoise Sagan, La guardia del corpo, Sellerio
Ultimi commenti