“Clinica Villa Angela, Lungotevere delle Armi 21, Roma. 13 giugno 1957. È quasi l’alba. La vedo prolungarsi dai tetti della città, distendere le braccia verso di me. Scorgo gomiti di fiume che svaporano al caldo, sbecchi di cielo. È un’estate torrida, che sembra non avere fine. O, forse, sarò io a non vederla tutta. Sono arrivato qui alla fine di maggio su interessamento del medico curante. Non ero mai stato tanto male. Quando ha esaminato le lastre è rimasto silenzioso. Poi ha detto: «Principe, vi dovete curare». E, per un siciliano, pare che non ci sia miglior cura che venire a Roma. Il primo giugno mi hanno ricoverato nella clinica di via Trasone 61. Poi mi hanno trasferito qui, a Villa Angela, sul Lungotevere delle Armi. È un edificio in stile liberty, fa parte di un quartiere di villini del primo Novecento. Eretti, smilzi, rapiscono di tanto in tanto lo sguardo. È un luogo di ricordi. In questo quartiere si tenne l’esposizione universale per celebrare i cinquant’anni dell’unificazione d’Italia. Poco distante si accampò nel 1906 Buffalo Bill con il suo circo. Lo spettacolo si chiamava Buffalo Bill’s Wild West Show e ad Antonno non sarebbe piaciuto. Avrebbe pianto per Toro Seduto e alce Nero. D’altra parte, ha sempre preferito i perseguitati ai persecutori. E i nostalgici agli spavaldi. Nella sua apparente inconsapevolezza, è sempre stato il più cosciente di tutti. Chissà cosa avrebbe pensato adesso vedendomi a letto, con la flebo che ticchetta lenta, che scandisce il tempo. Una goccia ogni due secondi. Segna l’orario meglio della solita cipolla che continua a pendermi sullo stomaco, e che aggancio persino al pigiama. Sono certo che non mi avrebbe detto che sono malato, ma sano. E che questo ricovero non è una degenza, ma una villeggiatura. Forse, avrebbe anche scambiato le pantofole per scarpe da passeggio, e la cobaltoterapia per un bagno di sole. Persino per le mie preoccupazioni letterarie non si sarebbe dato pensiero. Non avrebbe aspettato con ansia il responso delle case editrici. Dell’attesa avrebbe fatto un tempo di stabilità e non di passaggio. Ricordo che mi diceva sempre: «Non si scrive per vivere, principuzzu. Ma per imparare a morire»”.
Lo so, la citazione è lunghissima. Ma è, questo inizio, quello che ha colpito me con violentissima dolcezza e che mi ha spinta a divorare con lentezza (ho un nuovo tag, #iosonoantonno) l’intero romanzo.
Ve lo ricordate Il Gattopardo? Ecco, l’io narrante del libro che vi consiglio è lui, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, l’autore del grande classico. E Antonno, un bimbo tutto al contrario, è l’albatro, colui che non abbandona il capitano neanche durante la più terribile delle tempeste. Basta uno sguardo, siamo nel 1903, e il legame è di fuoco, fusione di cuori, promessa di libertà.
Nelle pagine ricamate con chirurgica esattezza e fantasia dall’autrice siciliana, già magistrato, si trovano mille scrigni e mille tesori. Due storie che si intrecciano parallele, la bellezza che toglie il fiato di Palermo (il padre) e quella di Santa Margherita Belice (la madre) che lo restituisce. C’è l’amicizia che non ci abbandona mai anche se allontana e divide i corpi, c’è l’amore. Ci sono i profumi di una terra, gli incantesimi della poesia del vivere. C’è il nostro destino nel suo sapore più pieno, quello dell’infanzia. Ci sono due guerre, c’è la malattia. Malattia che è ricerca di regola, di trama, di storie.
Questa lettura fa fare pace con la scrittura. Con il senso della vita, dei suoi sospiri, di quella sua parte che lacrima.
Simona Lo Iacono, L’albatro, Neri Pozza
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