“Loro non lo sanno, ma succede a tutte nello stesso istante. Quelle i cui figli non sono stati ritrovati hanno chiuso gli occhi, dopo diverse notti senza sonno. Non tutte le capanne sono state ricostruite dopo il grande incendio. Radunate in un’abitazione lontana dalle altre, combattono il dolore come possono. Durante il giorno non parlano della preoccupazione, non pronunciano la parola ‘perdita’, né i nomi dei figli che non hanno più rivisto. In assenza della guida spirituale – anche lui perso chissà dove –, il Consiglio ha preso le decisioni che ha ritenuto necessarie. Hanno consultato alcune donne, le più anziane. Quelle che non vedono il loro sangue da diverse lune. Quelle che ormai il clan considera alla pari degli uomini. In due hanno avuto il privilegio di essere ascoltate dopo la tragedia. Ha contato molto il parere di Ebeise, prima moglie della guida spirituale. Da levatrice, ha assistito molte partorienti. Ha visto tremare alcuni dei dignitari che siedono in Consiglio, mentre aspettavano fuori dalla capanna in cui stava per sbocciare una nuova vita. Si mordevano le labbra, masticavano erbe medicinali nella speranza di calmarsi, supplicavano i maloba di liberarli dall’esistenza terrena, tanto era dura quella prova. Li ha visti camminare avanti e indietro, con il sudore che gli colava sulla fronte e le mani strette al ventre, come se fossero loro in travaglio. Li ha visti inorgoglirsi mentre mostravano il neonato ai mani. Se il bimbo aveva assunto una posizione anomala durante il parto o, peggio, era venuto al mondo senza vita, la levatrice asciugava le lacrime ai padri, placava le loro angosce davanti all’infinita serie di sacrifici da compiere per scongiurare la sorte. È lei a preparare la miscela di erbe da usare quando i genitori del bambino nato morto vengono scarificati. Da quelle parti, portano un simbolo sulla pelle perché la morte possa ricordarsi di avergli già rubato un figlio”.
Quando ti capita, per caso (ah, il meraviglioso caso!), un libro come questo tra le mani ti viene quasi da gridare. Gridare un grazie, gridare per la meraviglia, gridare per un sacco di cose alcune delle quali anche senza nome. Perché è questo, il miracolo della letteratura vera: ci porta in mondi che non conosciamo, ci regala la cognizione di altre gioie, altri dolori. Allarga l’orizzonte culturale, lo relativizza e lo completa.
Léonora, nata nel 1973 in Camerun, vive in Francia dal 1991 ma la sua terra non l’ha mai abbandonata. In questo romanzo poetico e dai colori prorompenti della nostra unica stella diurna, la nana gialla che chiamiamo Sole, le parole ci trasportano nel cuore dell’africa sub-sahariana, nel villaggio del clan dei mulongo. Un grande fuoco, denso, luminosissimo, lo devasta e, durante quella notte, provoca la scomparsa di dieci adolescenti e due anziani, tutti maschi. Tocca alle donne cercare una risposta, dare voce allo sconcerto, al deserto.
La stagione dell’ombra è a tratti un giallo e a tratti un manuale di antropologia insieme, è un reportage di un viaggio che ti mette voglia di intraprendere subito nonostante il tema viscerale e crudo della schiavitù, è una lezione di elementi primari: il fuoco, l’acqua, le ore che si succedono, il legame di sangue. Magia e guerre tribali, il lamento dell’orrore, la bellezza di una terra che respira e parla, respira e chiede aiuto.
Di molte cose è fatto il mondo. Ne conosciamo pochissime. La letteratura è un banchetto dal quale attingere a piene mani per salvarsi e per tentare di salvare.
Léonora Miano, La stagione dell’ombra, Feltrinelli
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