“Chi ha vissuto il Novecento sapeva per esperienza che la civiltà può morire perché l’aveva già vista morire più di una volta. «Noi, le civiltà, ora sappiamo di essere mortali», scriveva Paul Valéry già nel 1919. Mia madre è nata a Napoli nel 1942, sotto le bombe degli anglo-americani. Pochi mesi dopo l’avrebbero bombardata anche i nazi-fascisti. Eppure questo non le ha impedito di fare tre figli e di guardare al futuro. La nostra vita vissuta non ci autorizza a disperare. Nemmeno a sperare, obietterà qualcuno. Ma il fatto è che, probabilmente, non ci autorizza a niente. (…) Forse l’origine della nostra indigenza è che viviamo nel tempo della cronaca. La cronaca non è più, per noi, uno dei tanti modi di raccontare il tempo presente. È diventata, invece, il criterio generale del nostro sentimento del tempo. Misuriamo su di esso, esclusivamente su di esso, le nostre esistenze. Ed è un metro corto. Da qui, forse, quell’altrimenti ingiustificabile senso di oppressione, quell’irosa sensazione di peggioramento che è la speciale condanna toccata a un’umanità sotto ogni altro aspetto privilegiata. La vita, se vissuta nell’orizzonte angusto della cronaca, si cronicizza in una malattia inguaribile di lungo decorso. La cronaca, se lasciata a se stessa, finisce col ridurre lo spettro dei suoi colori al nero e al rosa. Ci guardiamo attorno, spaesati, e vediamo soltanto un puttanaio assediato da crimini insensati. Come ha scritto Marc Augé, da alcuni decenni il presente è diventato egemonico”.
“Il tempo della cronaca” è il sottotitolo di questa raccolta di articoli scritti per vari quotidiani nei primi dieci anni del nuovo millennio e pubblicata da Bompiani nel 2010 dal vincitore del premio Strega 2019 (con M. Il figlio del secolo). Nell’introduzione, della quale ho riportato un piccolissimo stralcio, Scurati fa un’analisi sconcertante eppure lucidissima delle generazioni nuove, quelle vissute e cresciute in un Occidente prospero, ricco, sano. Siamo stati quelli che su carta avrebbero dovuto essere i più felici di ogni tempo, e invece siamo stati infelici, tesi, titubanti, proiettati verso altre vite, non le nostre. Abbiamo cercato il ritmo della nostra quotidianità nelle cadenze delle cronache, abbiamo staccato l’interruttore delle prospettive personali. La memoria si risveglia in un attimo, basta sfogliare le prime pagine: la strage di Nassirya, il delitto di Cogne e quello di Erba, la morte dei fratellini di Gravina di Puglia, la morte di papa Giovanni Paolo II, vallettopoli, il primo presidente americano nero, vallettopoli e ancora e ancora. Ricordi vividi. Vite non nostre alle quali abbiamo legato il nostro vivere. Alla notizia abbiamo ceduto lo scettro, siamo diventati succubi di altre emozioni, di mode; abbiamo dato significato a ‘modelli’ inesistenti. Abbiamo perso tempo, tanto.
Ci troviamo a vivere adesso qualcosa che mai avremmo creduto: l’impossibilità di vivere, di gestire relazioni, di programmare un viaggio, di fare shopping, di andare a mangiare un gelato in riva al mare. Anche questa sospensione la stiamo vivendo aggrappati al palinsesto televisivo (grande ritorno in voga del piccolo schermo), assistiamo al blocco mondiale. Come andranno le cose non lo sappiamo: una certa incoscienza dell’imponderabile, un certo essere cresciuti convinti di poter controllare tutto (unico timore vero, l’universo oncologico, comunque non più apocalittico come in passato), ci impediscono di credere che davvero possa non risolversi tutto e in breve. Troveranno un modo, ci diciamo. Non può non essere così.
Ecco. Auguriamocelo. E auguriamoci una rivoluzione, auguriamoci, poi, di riprenderci il tempo nostro. Smettere con la cronaca, iniziare il racconto fulgido della nostra storia.
Antonio Scurati, Gli anni che non stiamo vivendo, Bompiani
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