La prima considerazione: da che mondo è mondo, spettegolare e intrufolarsi pesantemente negli affari degli altri è un passatempo molto gettonato. La seconda: farlo è davvero divertente quando si tratta di ciarle leggere, ma diventa inutilmente cattivo nel momento in cui provoca del male.
Infatti, le parole possono rivelarsi armi micidiali capaci di lasciare segni indelebili come le cicatrici delle ferite profonde. Tant’è che riescono ad aizzare gli animi più pacati, massacrare quelli più forti, distruggere amicizie. E, purtroppo, sono anche in grado di alimentare un sentimento nefasto, dal quale non è sempre facile liberarsi.
Su Confidenze in edicola adesso, però, c’è un articolo, Per superare il rancore lascialo andare, che suggerisce alcune strategie per scrollarsi di dosso il fardello. Le ho lette e sono valide. Ciò non toglie che io preferisca invitare tutti a giocare d’anticipo, evitando di arrivare al punto di non ritorno. Cioè, al momento in cui l’odioso rancore crea danni irreparabili.
Detta in questo modo sembra che mi ritenga immune da tradimenti, delusioni e scorrettezze e che, trasudante di sicumera, mi consideri degna di salire in cattedra per insegnare a vivere. No, non è assolutamente così, anzi. Proprio perché le male parole annichiliscono anche me, mi auto esorto a farmele scivolare via appena ne arrivo a conoscenza (c’è sempre il maligno di turno che gode a riportarle). E in generale cerco di sorvolare su disattenzioni e comportamenti altrui che mi provocano rabbia e frustrazione.
Ovvio che l’impresa non è cosetta da nulla. Ma se ognuno di noi può adottare una tattica personale contro gli atteggiamenti che tolgono serenità, io ho escogitato un disegno che funziona abbastanza.
Intanto, provo a non curarmi di loro, ma guardare e passare. Quindi, convinta che nessuno piaccia a tutti, do per scontato il fatto che qualunque cosa io faccia possa scatenare una serie infinita di critiche. Che mi lasciano indifferente quando arrivano da gente di cui non m’importa un granché. E che spero ardentemente non escano mai dalla bocca degli amici fidati.
In questo (tristissimo) caso, non scriverei all’interessato una lettera (come consiglia l’articolo), ma l’affronterei di persona per capire cosa diavolo l’abbia spinto a darmi addosso. Certo, il confronto potrebbe essere doloroso, ma almeno risolutivo: la discussione finisce a tarallucci e vino, oppure i rapporti si interrompono. Ma a vicenda chiarita, perciò senza lasciare rancore.
D’altronde, come cita il dizionario, questo sentimento è “un’avversione profonda, tenacemente coltivata nell’animo in seguito a un’offesa o a un torto subito”. Ma visto che amo la socievolezza e che non sono portata a pensare che qualcuno voglia per forza colpirmi alle spalle, godo delle relazioni con gioviale aspettativa e senza perdere tempo a travasare bile.
Intanto, perché il mondo è talmente pieno di gente da frequentare, che trovo inutile insistere con chi non mi vuole bene. E poi, perché sono profondamente convinta che la persona che ama buttare lì la parolina cattiva, fare il piccolo sgarbo, negare cordialità e onestà intellettuale spesso lo fa per frustrazione. Tant’è che mi viene quasi da perdonarla, anche se so già che le nostre strade si separeranno. Ma più che rancore, il ricordo di quel che è stato mi lascerà dispiacere e delusione. Destinati, per fortuna, a trasformarsi in un asettico e sano disinteresse.
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