La passione e lo studio degli animali mi hanno portata in Cina, nella città dov’è scoppiata la pandemia e dove ormai da anni vivo con mio figlio. Quando è cominciato il lockdown ho scelto di non tornare in Italia. Perché qui mi sento a casa
storia vera di Sara Platto raccolta da Valeria Camagni
C’è un ricordo di me bambina che mi ha fatto compagnia in questi anni di lavoro in giro per il mondo. Io che a quattro anni ritaglio foto di animali e raccolgo articoli e immagini in un raccoglitore ad anelli, poi io che a sette anni chiedo alla mamma di comprarmi un atlante geografico. Su quell’atlante ho volato così tante volte con la fantasia immaginandomi ogni volta nei posti più sperduti del mondo: volevo viaggiare, salvare le balene e poi ancora andare in Australia a difendere i canguri. Sì l’amore per gli animali e lo studio del loro comportamento sono stati il filo rosso della mia esistenza: da piccola mi piaceva imitare il verso che fa mamma gatta per prendere i micini, mi riusciva così bene che questi mi venivano incontro. Ed è per inseguire questa innata passione che sono arrivata qui a Wuhan, in Cina, dov’è scoppiata la più grave epidemia del secolo che ha messo in discussione proprio il comportamento dell’uomo nei confronti degli animali.
Come sono capitata qui?
Tutto è cominciato dopo la laurea in Veterinaria, mi ero specializzata nello studio del comportamento animale e decisi di andare in Israele, a Eilat per fare il dottorato di ricerca sull’interazione tra i delfini e il trainer: lì in quella cittadina sul Mar Rosso c’è un delfinario in mare aperto e questi mammiferi sono sempre stati i miei animali preferiti. Tornai da questa esperienza sempre più determinata a studiare gli animali in giro per il mondo. Ma mi scontrai con la mia famiglia che non ha mai approvato la mia scelta professionale: i miei genitori avrebbero preferito che aprissi un laboratorio di veterinaria nella mia città natale, Brescia, e che facessi una vita normale. Così per far contenti loro, in attesa di ricevere risposta ai tanti curricula inviati in giro per il mondo, provai a fare un altro lavoro in un’azienda farmaceutica, È durata quattro mesi, mi sono licenziata e neanche a farlo apposta dopo pochi giorni mi hanno chiamato dal Canada per dirmi che avevo vinto una borsa di studio per lavorare come veterinaria in un centro di recupero di foche in Canada.
Nel frattempo avevo conosciuto quello che sarebbe diventato poi il padre di mio figlio: lui era di origine italoamericana, si trovava a Brescia di passaggio, ma viaggiava per lavoro tra Cina e Stati Uniti. Iniziammo a sentirci per telefono e quando partii per Vancouver nel 2006 mi venne a trovare. L’anno successivo lui si trasferì a Pechino e una zoologa inglese che lavorava per lo Zoo di Pechino e collaborava con l’Accademia delle Scienze Cinesi mi invitò a fare una presentazione sul lavoro svolto per il mio dottorato. Così cominciò la mia vita in Oriente. Matteo, nostro figlio, è nato in Cina nel 2008, poi nel 2010 ho iniziato lavorare con un gruppo di lavoro dell’Accademia delle Scienze di Wuhan: facevo registrazioni con i delfini in acquario e nel 2012 decisi di trasferirmi a Wuhan. Oggi insegno alla Jianghan University di quella città, Matteo ha 12 anni e frequenta la scuola americana, ci siamo perfettamente integrati in Cina e quando è scoppiata la pandemia abbiamo deciso di non rientrare in Italia, ma di trascorrere qui il lockdown.
L’idea che mi sono fatta a proposito del Coronavirus è che non sia nato a Wuhan, ma sia stato trasmesso da altre parti. È stata un’epidemia annunciata, nella comunità scientifica erano già girati articoli che denunciavano da tempo la perdita della biodiversità come fattore di rischio Negli ultimi 40 anni c’è stata una globalizzazione spinta, l’essere umano ha invaso zone naturali dove prima non era presente, foreste e campi sono entrati in un nuovo ciclo biologico; batteri e virus che prima non erano raggiungibili ora hanno una forte presa, questo ha causato un rimescolamento. Un sacco di patologie sono scoppiate perché l’essere umano ha attaccato ambienti a cui prima non apparteneva. E il Coronavirus, secondo me, ne è un esempio.
Perché ha colpito proprio Wuhan? Parlando con una dottoressa ho saputo che a settembre c’erano già tantissime polmoniti, ma all’inizio non si è capito che si trattava di un nuovo virus. Avevano iniziato ad analizzarlo, ma prima di lanciare l’allarme bisognava valutare la gravità della situazione. Va anche tenuto presente che in Cina non esiste il medico di famiglia, si va dal dottore in ospedale, quindi durante l’inverno c’è già un’affluenza molto alta di persone, e proprio le cliniche diventano i principali ricettacoli d’infezioni.
L’ altro evento che ha sicuramente penalizzato Wuhan sono stati i Giochi Mondiali Militari 2019 che hanno attirato in città milioni di persone da tutta la Cina e che si sono svolti a metà ottobre. Molti hanno additato la responsabilità del contagio ai wet market ovvero i classici “mercati umidi” all’aperto dove, oltre a frutta e verdura, carne e pesce, si vendono anche gli animali vivi che vengono macellati al momento e c’è chi sotto banco vende illegalmente animali selvatici. Sono mercati diffusissimi, dov’è facile vedere animali come cervi, procioni e purtroppo anche pipistrelli. Ora non più grazie al cielo, la Fondazione China Biodiversity Conservation and Environment per cui collaboro ha partecipato alla stesura della nuova legge per la protezione degli animali selvatici creata in risposta all’epidemia di Coronavirus, che ha irrigidito il controllo vietando il consumo di animali selvatici, come per esempio i pipistrelli. Io li considero i delfini terrestri perché come loro comunicano con gli ultrasuoni, ma sono un serbatoio incredibile di virus e c’è un motivo se il Covid ha scelto loro come mezzo di trasporto, e lo spiego molto bene nel mio libro.
Quando è iniziato il lockdown era la vigilia del compleanno di mio figlio Matteo che è nato il 23 gennaio, lui aveva già in programma la festa con gli amici, ma abbiamo fatto in tempo solo a comprare la torta. All’inizio non era chiaro se volessero chiudere tutti i negozi, poi la notte del 22 gennaio hanno annunciato che dal giorno dopo la città veniva chiusa: negozi, aeroporti, stazioni, autobus, si era creato un cerchio ferreo intorno a Wuhan.
Abbiamo festeggiato Matteo online con amici e parenti. La gente era nel panico, io ho fatto la mia valutazione dopo essermi consultata con virologi e medici: si rischiava meno a restare a Wuhan che non a prendere l’aereo per rientrare in Italia. L’ambasciata italiana ci ha contattato tutti per organizzare il rientro, ma io e Matteo viviamo con i nostri due gatti, Gingy e Deawy, e quando lui ha saputo che non avremmo potuto portarli con noi, è stato irremovibile.
«Non sei tu quella che dice sempre che nelle famiglie non si lascia indietro nessuno? E che dalle difficoltà si esce insieme?» mi ha detto. È stato un attimo, ci siamo guardati negli occhi e io ho risposto: «Restiamo, restiamo a casa».
I giorni successivi sono stati molto concitati. La mia famiglia in Italia era molto preoccupata, mia madre voleva chiamare il Ministero degli Esteri per farmi costringere a rientrare, conoscendola sarebbe stata capace di farlo.
La sera in cui è atterrato l’aereo italiano a Wuhan per evacuare le ultime persone, l’ambasciata mi ha richiamato per cercare di convincermi a rientrare ben sapendo che non avrei cambiato idea. E infine mi ha contattato per aiutare Nicolò, il ragazzo italiano di 17 anni rimasto bloccato a Wuhan per un programma di scambio culturale della scuola. Nessuno poteva entrare in città neanche l’ambasciata, io avevo tanti contatti, mi sono rivolta al capo della Fondazione dove lavoro e ho aiutato quel ragazzo a rientrare. Alla fine di italiani a Wuhan siamo rimasti in nove. Mio figlio riempiva le sue giornate incontrandosi con i compagni via internet e ringrazio Dungeons & Dragons per il supporto! Se non ci fosse stato quel videogioco a riempire le sue giornate, non so come sarebbe andata. Nelle prime due settimane di lockdown si poteva ancora uscire per andare al supermercato, poi hanno capito che per circoscrivere l’epidemia bisognava chiudere tutto. Noi utilizziamo tutti le app per fare la spesa, si ordina online e ci sono corrieri che consegnano a casa entro un’ora, ma in quel frangente anche le app erano intasate. E allora la differenza l’ha fatta il senso di comunità e fratellanza che regna anche nelle metropoli da 11 milioni di abitanti come Wuhan. Qui la città è divisa in residence che raggruppano decine di edifici: durante il lockdown si poteva prenotare la spesa a mezzanotte per il giorno dopo e la consegnavano all’interno del compound. Poi ciascuno andava a ritirarsela al residence.
Una sera che però le app erano andate in tilt chiesi nella chat del gruppo dell’edificio dove si poteva fare la spesa. Sono arrivati i vicini portandomi spaghetti, cipolle e pomodoro e dicendo una frase che è diventata famosa: «Sara be strong, China will fix it». Che sta un po’ come dire, coraggio, la Cina risolverà ogni cosa. E così è stato. Anche se in Italia è stata data un’immagine distorta di Wuhan, con le guardie che costringono le persone a rientrare in casa e questo mi ha fatto male.
In realtà non erano militari ma la Salvation Army, ovvero le guardie civili che hanno bloccato stazioni e aeroporti per impedire alla gente di partire, di uscire da Wuhan e trasportare il virus altrove. Hanno chiuso tutta l’Hubei, un’intera regione da 60 milioni di abitanti, grande come l’Italia, facendo un sforzo incredibile. E quando è finito il lockdown, per noi è stata davvero la fine di un incubo, il governo ha aperto la città solo dopo che per due settimane non c’erano stati più nuovi casi di infezioni. Ricordo la sera in cui le luci della città si sono riaccese, mi sono messa a piangere, è stato un pianto liberatorio.
In tutto questo tempo ho sempre cercato di essere positiva, prova ne è la chat che tenevo con i colleghi italiani, dove ogni mattina mandavo un messaggio. L’ho chiamata “Buongiorno Wuhan!” parafrasando il famoso film con Robin Williams Good Morning Vietnam; questa esperienza però ha lasciato un segno non indifferente. Soprattutto ha rafforzato il mio legame e quello di mio figlio con la Cina.
È un po’ come quando con gli amici affronti periodi difficili e li superi, alla fine non sono più solo amici, ma una famiglia. Ecco io qui mi sento a casa: per questo dico grazie Wuhan. ●
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