Vi riproponiamo sul blog la storia vera più apprezzata del n. 37 di Confidenze
È la frase incisa nell’anello che ho donato a Chiara per chiederla in sposa, pochi giorni prima che la malattia me la portasse via. Con lei ho passato cinque anni meravigliosi che valgono una vita
Storia vera di Edoardo Parisi raccolta da Vincenza Cascio
Immaginate di essere in mezzo a una folla di persone e di rimanere folgorati da un sorriso, un dettaglio, una ciocca di capelli spostata con noncuranza. Immaginate due ragazzi che s’incontrano per caso e che uno dei due rimanga completamente e irrimediabilmente stregato da quest’incontro. Eccomi qui, quattordicenne di allora a fare i conti con un colpo di fulmine che era delizia e tormento. Un ragazzino impacciato a cavallo del suo motorino, in girotondo per Fucecchio, al cospetto di colei che manco mi vedeva: diciannovenne, patentata, con una vita sociale intensa e soprattutto bellissima, di una bellezza quasi sconcertante. Per noi ragazzi di paese “la Giuntoli” era un miraggio, un sogno a occhi aperti a cui non si poteva avere la sfacciataggine di ambire nemmeno con il pensiero. Era la sorella di Matteo, il mio migliore amico, e io mi struggevo d’amore anche solo a vederne l’ombra appiccicata al muro.
Lei saliva in auto con le amiche per andare a divertirsi, io giocavo sul muretto con le figurine dei calciatori. Ero come Dante che si struggeva per Beatrice, giusto per rendere l’idea della faccenda. Ma il tempo passa e quando non peggiora le cose le può solo migliorare. E così arrivo a 26 anni: ormai la goffaggine del passato è nebulosa nel tempo, ho avuto storie e passioni, ma il pensiero di Chiara è rimasto un sottofondo costante nella mia memoria, quel sogno tanto desiderato e mai dimenticato. Un giorno, un indimenticabile e memorabile giorno, ricevo la notifica di un messaggio su di un social. Al momento credevo a un caso di omonimia e invece no, era proprio e incredibilmente lei. Mi chiedeva notizie su Formentera, voleva passare lì una vacanza e chiedeva proprio a me, sapendo che conoscevo bene l’isola. Le diedi tutte le informazioni del caso, attaccato al filo di speranza che lei potesse finalmente accorgersi di me e nei giorni a venire entrammo sempre più in confidenza, scoprendo di avere tante affinità in comune. L’amore per i viaggi fu la prima e la più lampante. E, col tempo, come nel più impensabile dei miei sogni, la Giuntoli s’innamorò di me.
Passavano gli anni e il nostro amore era sempre più forte e tenace, profondo e spensierato: tanti viaggi, pochissimi bassi e moltissimi alti, come tutte le coppie che si amano e si tengono per mano. Un amore tanto spensierato e allegro quanto intenso e profondo. Lei era una donna di spirito, dall’ironia sottile e si chiedeva come mai, dopo tre anni di fidanzamento io avessi ancora il suo nome sul telefono registrato col cognome.
«Ma sono la tua fidanzata, mica una sconosciuta!» diceva.
«Ma tu per me sei sempre stata “la Giuntoli”» rispondevo, lasciandole intendere che le otto lettere del suo cognome scoccavano da sempre sulla mia lingua come la più dolce delle melodie.
E in effetti la mia vita con lei un sogno lo era davvero. Poi, tre anni fa, una vacanza in Messico. Un giorno mi disse preoccupata di aver trovato delle tracce di sangue nel reggiseno, ma lei teneva molto alla prevenzione, si sottoponeva a controlli periodici e quindi cercai di rassicurarla, dando la colpa all’eccessivo caldo, allo sfregamento del tessuto. Insomma non ero particolarmente preoccupato, non più di tanto. Era giovane, sana e bella, piena di vita e di energia e poi era con me: non le sarebbe successo nulla.
Tornati a casa andò immediatamente a fare un controllo e quando ricevetti la sua telefonata non potevo immaginare nemmeno lontanamente quello che mi disse: «Edoardo, ho un tumore a entrambi i seni».
In un attimo mi precipitai a casa nostra, la nostra bellissima casa inaugurata appena quattro mesi prima, un nido che avrebbe accolto la famiglia che avremmo costruito. Eravamo lì, frastornati e confusi nel nostro soggiorno, ma in quel momento difficile e inaspettato di una cosa ero profondamente certo: sarebbe guarita, glielo promisi cosi come le promisi che non sarebbe mai stata sola. Iniziò immediatamente l’iter della chemioterapia in vista dell’intervento. Il momento più terribile fu quando nel nostro bagno si rasò i capelli e guardandosi allo specchio disse: «Edoardo, ora mi sento una malata». Lei, la Giuntoli, la vita fatta donna, in quel momento realizzò pienamente la portata di quello che avrebbe, avremmo, dovuto affrontare.
Le chemio erano forti, il tumore feroce ma i medici ci davano qualche speranza. La mia dolce guerriera era talmente volitiva che tra una chemio e l’altra mi organizzò persino una festa a tema anni Venti per il mio trentesimo compleanno, in perfetto stile The Great Gatsby. Era una visione, l’ispirazione di una poesia, quella sera. Poco tempo dopo la portai a New York, città che ci aveva visti felici nei nostri tanti viaggi e simbolo del nostro amore. Parrucca, trucco, smalto, tacchi alti e via, fuori nel brulichio della città, mano nella mano a vivere. Poco tempo dopo, si arrivò all’intervento, che richiese l’asportazione di entrambi i seni e dei linfonodi sotto ascella.
«Ci dispiace signora, in futuro, se vorrà avere figli, non potrà allattare» le dissero i medici. Aveva 35 anni.
«Pazienza, vorrà dire che lasceremo i bambini ai nonni con più facilità e meno sensi di colpa e avremo più tempo per girare il mondo» rispose sorridendo.
Da queste poche parole, si intuisce l’essenza della donna che era. Nemmeno una molotov la buttava giù, trovava sempre il lato positivo e una probabile via d’uscita. Eppure avere dei figli era il suo sogno più grande, me lo aveva detto fin dall’inizio della nostra storia.
«Pazienza, non allatteremo, ma non sarà la fine del mondo, no?» disse. Io, inutile dirlo, l’amavo ogni giorno di più. Volevo sposarla, cosa c’era da aspettare? Lei era la donna della mia vita, l’unica che immaginavo al mio fianco per il resto dei miei giorni.
Cominciammo a parlare di matrimonio, mille idee pensate e poi stravolte, ma di una cosa eravamo entrambi sicuri: ci saremmo sposati a Palaia, in provincia di Pisa, dentro una chiesetta di cui eravamo perdutamente innamorati. Intanto il tempo passava e, seppur tra qualche difficoltà, la nostra vita sembrava tornare sui binari di una quasi normalità.
Era venerdì 5 giugno quando, dopo un controllo di routine, una sua nuova telefonata cambiò nuovamente il corso degli eventi. Appena arrivato a casa mi chiese di sedermi e subito dopo una nuova bomba:«Mi hanno trovato delle metastasi al fegato e mi hanno già detto che non potrò avere figli, in futuro. Non potremo costruire una famiglia, non potremo mai diventare mamma e papà».
Scoppiammo entrambi in lacrime nella più totale disperazione. Io per questa nuova batosta e lei, forse, più per non poter diventare madre. Perché questo era il suo più grande desiderio e io innamorandomi di lei mi ero innamorato anche dei suoi sogni.
Ma ripartii subito con il mio credo: «Amore, ti curerai e guarirai, te lo prometto. L’abbiamo fatto una volta, lo rifaremo anche una seconda. Il tumore ha scelto le persone sbagliate».
Ero convinto delle mie parole ma le cose, da subito, sono apparse molto più gravi di quello che pensavo. I medici stavano preparando una nuova cura per lei, immunoterapia insieme alla chemioterapia e un giorno mi dissero, con tatto ma senza mezzi termini, che Chiara non sarebbe mai guarita. Che a causa del tumore triplo negativo al seno e delle conseguenti metastasi al fegato, non aveva speranze di sopravvivere.
«Sei mesi di vita, da protocollo. Se si cura può arrivare a un anno, un anno e mezzo» dissero.
«Io voglio sposarmi, voglio sposarla…».
«Faccia in fretta».
Ma no, Chiara non può morire. Qui c’è un errore, c’è un qualcosa di serio è vero, ma mica muore, non scherziamo.
Contattai un centro in Lombardia, l’eccellenza nel campo, e feci visionare i referti: cambiarono i medici ma non la diagnosi. Tornai a casa in frantumi, mille pezzi di me sparpagliati qua e là. Lei era a letto e mi chiese speranzosa cos’avevo detto e io mentii, a lei ma anche a me stesso: «Hanno detto che non sei terminale perché ai malati terminali non preparano cure. Invece per te la stanno mettendo a punto, hanno già ordinato le medicine e tra poco inizierai a curarti. E guarirai. Andrà tutto bene, non preoccuparti. Io e te siamo una forza».
«Io mi curerò e se tu sei vicino a me non avrò mai paura».
Maledetto, assassino tumore. Per quanto la sua forza fosse feroce nulla poteva fare contro il nostro amore, se non unirci ancora di più. Più lei deperiva, più perdeva la sua immensa bellezza e più io l’amavo. Il giorno dopo chiamai un amico gioielliere:
«È arrivato il giorno, Leonardo, apri il negozio per me. Oggi chiederò a Chiara di sposarmi, voglio l’anello più bello mai visto».
Si dice che un diamante sia per sempre, io ci ho fatto incidere “il vero Amore”. Così, Amore, con la A maiuscola.
Intanto lei peggiorava di giorno in giorno. Avevo fatto stampare in fretta e furia cento fotografie, cento ritratti di amore e felicità incollati ad altrettanti palloncini bianchi, per adornare il soggiorno di casa e chiederle la mano proprio li, ma dopo l’ennesimo controllo le trovarono il mostro anche alla testa. L’aveva voluta tutta e tutta se la stava prendendo. Me l’hanno portata via da casa e ricoverata. Ero solo in quelle stanze improvvisamente fredde, ma il freddo ce l’avevo dentro e tremavo, solo la sua presenza riusciva a scaldarmi e infatti cercavo di stare in ospedale con lei più tempo possibile perché lei era luce e sole e fuoco, anche sdraiata in un letto di ospedale. L’anello ce l’avevo sempre in tasca, aspettando il giorno migliore tra tutti ma quel giorno non arrivava mai.
Piuttosto, era sempre peggio: lottava con fierezza come lottano le leonesse ma era sempre più stanca, ogni volta più vinta al punto tale da avere terribili amnesie che le facevano dimenticare il giorno precedente per intero.
Allora ho avuto un’idea: creare un video che riprendesse il momento della mia proposta. Un video non l’avrebbe potuto dimenticare, sarebbe rimasto impresso per sempre.
È mercoledì 17 giugno e a Pisa si festeggia San Ranieri, il patrono. Arrivo all’ospedale Cisanello di mattina, lei sta dormendo e per la prima volta in due anni di ricoveri non ha nessuna compagna di stanza. Siamo solo io e lei e lo considero un segno del destino che cancella ogni tentennamento, ma nemmeno il tempo per riflettere sul da farsi che in stanza entra una donna, accompagnata dalla figlia e da un medico. Le chiedono le generalità, nome, cognome, data di nascita, residenza… residenza: Palaia. Ecco, noi ci saremmo dovuti sposare proprio li. Istintivamente la guardo, lei apre gli occhi e sorride. Nessun posto al mondo poteva significare tanto per noi come quel luogo. Il resto… il resto è storia.
Il mio video è stato visto da milioni di persone. Io che infilo la mano in tasca ed estraggo il cofanetto, e dove ho trovato la voce nemmeno lo so, lei che si copre il volto con le mani e mi dice sì e non c’era tristezza in quel momento, perché noi eravamo davvero convinti che avremmo avuto il tempo di sposarci proprio nel nostro luogo del cuore.
Mi ha lasciato due giorni dopo e fino all’ultimo ha accarezzato con un lieve soffio di vita quell’anello. Io sapevo di non poter chiedere molto, avrei voluto solo un po’ di tempo in più, poterla prendere in braccio e uscire da quella stanza, portarla a Palaia e sposarla davanti a Dio. Poter almeno esaudire uno dei suoi due più grandi sogni, solo questo, ricambiare con tutto il mio amore quello che lei ha dato a me, regalandomi per cinque lunghi anni una vita bellissima. Il suo funerale non è stato propriamente tale e forse può suonare strano, ma è stato anche il nostro matrimonio. I palloncini bianchi con le nostre foto sono volati in cielo, accompagnandola nel suo ultimo viaggio.
E io che, vicino alla sua bara, mi metto a parlare di lei, di noi. Con la mia voce e con lei che sentivo accanto a me, ho parlato e detto tutte le cose che lei mi ha insegnato sulla vita, sul coraggio e sull’amore e per la prima volta parlo di mia “moglie”. Perché essere marito e moglie non è solo una promessa, è una condizione. Perché per cinque anni abbiamo vissuto un amore talmente intenso e vero che molte persone, probabilmente, non vivranno mai nemmeno nel corso di una una vita intera. La gente pensa che io stia affrontando questa tragedia con un coraggio da guerriero ma la verità è che sono distrutto.
Ho 32 anni, Chiara non c’è più e in questo momento credo di aver perso tutto al tavolo della vita. Lei continuerà a brillare in eterno nei pensieri e nelle mie azioni, ma nulla sarà più uguale per me e per tutti coloro che la amano. Allora ho deciso di impegnarmi in una cosa di grande importanza: attraverso la piattaforma Go Fund Me, presente in rete, ho creato una raccolta fondi chiamata “Un pensiero per Chiara”. Ogni donazione verrà destinata all’Associazione Senologica Internazionale dell’Ospedale Santa Chiara di Pisa.
In pochi giorni sono già stati raccolti più di 36.000 euro che andranno interamente a finanziare la ricerca. Dedico tutte le mie energie a questo progetto perché spero, in un futuro, che un altro Edoardo e un’altra Chiara abbiano la possibilità di continuare a tenersi per mano e percorrere insieme una lunga vita che a noi non è stata concessa.
Se mi chiedessero di rivivere questi ultimi cinque anni pur conoscendone il finale, direi mille volte che rifarei tutto. Cinque anni con lei sono valsi una vita intera. Perché l’importante è vivere una vita meravigliosa, non importa quanto lunga, purché sia meravigliosa. ●
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