Se un medico deve darti una brutta notizia, in che modo lo dovrebbe fare? Il “modo giusto”, in certi casi, forse proprio non c’è.
Però…
31 dicembre 2014: io e mio marito siamo in ospedale, a visitare una parente sottoposta a un intervento esplorativo.
Parliamo col chirurgo: giovane, professionale, esprime la diagnosi e, con l’umanità di un frigorifero, dice: «Quando avremo i risultati delle analisi, valuteremo se esistono opzioni terapeutiche».
«Se esistono? Vuol dire che potrebbero non essercene?» balbetto io.
«Be’ la signora non è giovane».
Fine del colloquio. Stiamo parlando di una persona certo non giovane, ma attivissima, forte, una roccia da molti punti di vista. L’idea che potrebbero non esserci cure per lei ci scava un vuoto dentro. Tanto che mio marito e io non riusciamo a ripetere le parole del chirurgo non dico all’interessata ma neanche agli altri parenti, ai quali diamo la notizia sì, ma in tono più morbido. Senza negare nulla, ma con parole diverse.
Non ho mai amato le mezze verità, l’ambiguità di certe diagnosi che, fino a qualche anno fa, venivano taciute o fatte intendere per allusioni. Però oggi mi chiedo: tra l’onestà professionale e la fredda brutalità di una comunicazione per addetti ai lavori non dovrebbe esserci una via di mezzo?
Leggo che Slow Medicine, l’associazione nata per promuovere una medicina sobria, rispettosa e giusta, ha lanciato la campagna #buongiornoiosono… chiedendo ai medici di presentarsi con nome, cognome e ruolo a pazienti e parenti spesso disorientati dalle diverse figure ospedaliere. La campagna prende spunto da un’iniziativa simile, proposta in Gran Bretagna, da Kate Granger, un medico che, dopo essersi ammalata di tumore ed essersi ritrovata nel ruolo del paziente, ha capito l’importanza di un approccio chiaro, diretto e personale a chi sta in ospedale.
Mi sembra una buona iniziativa. Ma sogno che si possa andare oltre.
Che diventino obbligatori, nelle facoltà di Medicina, corsi di comunicazione emotiva. O che tutti i medici siano “costretti” a ritrovarsi, almeno per qualche giorno, nella parte dei pazienti.
Voi che ne dite, non sarebbe interessante ribaltare i ruoli? Mi raccontate qualche esempio positivo di comunicazione medico-paziente?
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