“Avevo sempre creduto che mia madre fosse stata uccisa per non aver voluto far sesso con qualcuno. Era un modo infantile per sfumare l’orrore: la donna che muore per non lasciarsi violare. Mia madre aveva fatto l’amore con il suo assassino. Una testimone li aveva visti in caratteristico atteggiamento post coito. Erano andati via dal drive-in. Lui voleva scaricare quella donna disperata che si era scopato, e poi proseguire con la propria vita. L’accensione era avvenuta perché lei voleva di più. Più alcol. Più distanza dalla Chiesa riformata olandese. Più emozioni degradanti. Più amore sedicimila volte rimosso per essiccazione. Quei bisogni di mia madre li avevo ereditati. Il pregiudizio mi favoriva: gli uomini possono scoparsi indiscriminatamente le donne con molta più facilità, rispetto a quanto le donne possano scoparsi indiscriminatamente gli uomini. Bevevo, mi drogavo e andavo a puttane con la spacconeria di chi si sa ammirato e perdonato. La fortuna e la circospezione del codardo mi avevano tenuto a un pelo dal baratro. Il suo dolore era stato maggiore del mio. Quel dolore delinea il confine che ci separa. La sua morte mi ha insegnato a guardarmi dentro e a mantenermi distante. Quel dono di consapevolezza mi ha salvato la vita. Non finiva lì. La mia indagine sarebbe continuata. Dal El Monte portai con me un nuovo dono. Sono fiero di avere i suoi lineamenti. Geneva Hilliker Ellroy: 1915 – 1958. Il mio debito cresce. Il tuo estremo terrore è la fiamma su cui tengo la mano”.
Facciamo un grande salto in avanti, questa settimana. Passiamo dall’orrore e dal terrore fittizi, quelli disegnati dall’immaginazione dello scrittore e poi ricamati in trame sottili e senza soluzione di continuità, quelli dove tutto torna nelle pagine finali, al true crime, all’entropia dell’azione criminale, alla sua metanarrazione. Ho scelto un abstract del primo ‘articolo’ che appare in questa antologia. Lo ha scritto James Ellroy, l’autore degli eccessi, e ha una particolarità da brivido: racconta un crimine irrisolto, una donna trovata morta. Racconta un’infanzia di un ragazzino alle prese con due genitori quasi per caso, uno dei quali piuttosto amato e l’altra molto meno. Racconta le passioni, inconciliabili, che hanno portato quei genitori a separarsi e a giocarsi la carta del figlio sul tavolo delle accuse reciproche. Il ragazzino era lo stesso Ellroy. Il cadavere quello della madre. Ellroy torna dopo anni, tanti, in California, per capire cosa accadde quella notte. Non riuscirà a scoprirlo ma verrà alla luce qualcosa di più disturbante: il clima che precede una fine.
Nove inferni, sette firme eccellenti del panorama americano, quello che al true crime ha dato vita, quello che ha accettato la sfida che toglie equilibrio a ogni plot, quella dell’elemento – o degli elementi – irrazionale che quasi sempre connota un crimine. Ci si perde troppo spesso nella nebbia della logica, quando si scrivono un giallo o un thriller: il true crime non ha bisogno di nulla se non di se stesso, dell’apparato cardiaco all’interno del quale scorre indisturbata la pazzia.
È lettura pesante, quella del true crime. Ci mette di fronte alla verità: noi esseri umani amiamo i fatti di sangue, ci elettrizzano. E più i fatti sono veri più – poi diciamo di no, non lo ammettiamo, ci facciamo il segno della croce – l’intrigo e il disgusto e il terrore ci attraggono. Nel teatro greco il sangue si è mostrato nel mito. Il Grand Guignol ha ereditato, e nutrito, l’arte del raccapriccio. Per strada, nelle nostre case, senza sceneggiature o canovacci, è di scena la follia, quella che si intreccia con la tranquillità della quotidianità.
AA.VV., Menti criminali, Einaudi
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