Vi riproponiamo sul blog la storia vera più apprezzata del n. 49 di Confidenze
Oggi sono la madre di Vittoria, che prima si chiamava Nicola. Non è stato facile per me, ma solo dopo che ho accettato la sua nuova identità ho potuto farla rinascere nel mio cuore
STORIA VERA DI DANIELA DEL LATTE RACCOLTA DA MARCO BERGAMASCHI
Mi chiamo Daniela e ho sempre saputo di voler diventare madre. Da piccoli si sogna di fare la maestra, il veterinario o l’astronauta, io sognavo di fare la mamma. Quando ho conosciuto Roberto, ho capito subito di aver identità ho potuto farla rinascere nel mio cuore trovato la mia anima gemella; ci siamo sposati pieni d’amore e dopo un anno è arrivata Debora. Essere genitori ci riempiva di gioia e la nostra felicità è raddoppiata quando dopo qualche tempo ho scoperto di essere in attesa di due gemelli, un maschio e una femmina. Per i nomi non avevo dubbi: la femmina l’avrei chiamata Dalila, il maschietto Nicola, come il mio adorato fratello che avevo perso qualche anno prima a causa di un incidente in moto. Eravamo molto legati e la sua scomparsa improvvisa mi aveva gettato nello sconforto. Chiamare mio figlio con il suo nome non solo mi faceva sentire meglio, ma mi regalava l’idea di averlo ancora con me.
Fin dalla nascita dei gemelli ho intuito che Nicola fosse un bimbo speciale: mai irruento, non amava la competizione e la lotta, ma al contrario aveva sempre un atteggiamento posato. Quando aveva due anni, una sera mentre stavo spogliando le bambine per mettere loro il pigiama, mi ha fatto capire di voler provare uno dei vestitini della sorella. Appena l’ha indossato, è andato di corsa allo specchio. Si guardava di lato e di fianco, faceva delle giravolte, i suoi occhi brillavano e aveva un sorriso enorme. Ma non ho voluto darci più di tanto peso. All’asilo non giocava con gli altri bambini e al pallone preferiva le bambole in compagnia delle bambine. Ma anche in quei casi non ho voluto soffermarmi sulla cosa. Anzi ogni tanto lo sgridavo e gli ricordavo che i maschi non giocavano con le bambole. Se penso oggi alle mie parole, non riesco a immaginare quanta sofferenza possano aver inferto al suo cuore.
In prima elementare, l’ho portato a fare una prova nella squadra di calcio dove abitavamo: ero entusiasta che mio figlio corresse dietro a un pallone con le scarpette e i parastinchi. Ma entrato in campo, Nicola è rimasto immobile, con le dita in bocca per tutto il tempo della partita mentre gli altri bambini intorno a lui correvano e scalciavano pieni di entusiasmo. Quel giorno sono tornata a casa con la consapevolezza che Nicola non era come tutti gli altri bimbi, ma pur cercando di essere una mamma presente e premurosa, ho preferito continuare a non pensarci troppo. Poi a 16 anni Nicola ha fatto coming out, comunicando di essersi innamorato di un ragazzo. In verità il mio cuore sapeva già tutto, ma sono rimasta malissimo. Ho cercato di essere comprensiva, mentre dentro di me è successo il finimondo: tristezza, paura e disagio abitavano il mio cuore e per due anni non l’ho detto a nessuno come se dovessi celare il più terribile dei segreti. Al tempo stesso ero colpita dalla mia reazione: avevo sempre sostenuto di voler crescere i miei figli nella libertà, nell’indipendenza e nella felicità e con Nicola non lo stavo facendo. Ma le sorprese non erano finite.
Tre anni dopo Nicola ha fatto il suo secondo coming out, quello sulla disforia di genere. Una sera ha chiesto a me e a mio marito di sederci in salotto e pieno di emozione, ha detto: «Da sempre mi sento una ragazza e da oggi voglio cominciare a vivere come una ragazza».
Il mio mondo è crollato. Una sensazione di impotenza e rabbia ha preso il sopravvento, continuavo a ripetermi “perché proprio a me” e ogni sera quando andavo a letto, speravo di svegliarmi il mattino seguente e di vedere Nicola sulla porta della camera che diceva “mamma è stato un passaggio adolescenziale, ma adesso sono normale”. Ovviamente pensare che mio figlio avesse problemi di identità mi faceva stare malissimo. Non sapevo nulla sull’argomento, se non che fosse una sofferenza molto profonda che andava accolta e non certo osteggiata. Ma un conto erano le parole e un conto i fatti. Nicola mi stava chiedendo di accoglierlo come figlia, di amarlo come figlia e di riconoscerlo come figlia. E per me era difficilissimo. Ho cominciato a raccogliere più informazioni possibili sull’argomento, alla ricerca di tutto quello che mi potesse aiutare. L’avevo già fatto con il primo coming out, ma questa volta era diverso. Non solo per la tematica, ma perché avevo capito che la felicità dei miei figli doveva veniva prima delle mie aspettative e prima dei miei desideri. Al tempo stesso mi scontravo con la parte razionale di me. Le difficoltà maggiori erano quelle di trattare mio figlio come una ragazza: parlare al femminile, accettare i suoi nuovi vestiti e notare il make up in camera sua rappresentava per me, ogni volta un esercizio di autocontrollo. A un certo punto ho smesso di fare il bucato: non c’erano più i vestiti di Nicola, ma quelli di Vittoria perché era così che aveva deciso di farsi chiamare. Sebbene con la testa avessi accettato la situazione, il mio cuore diceva ostinatamente no.
Intanto lei aveva iniziato un percorso terapeutico, propedeutico a quello ormonale. Io la accompagnavo e a ogni incontro mi scoprivo fragile e confusa mentre Vittoria era sempre più determinata e felice. Poi un giorno questo medico mi ha detto: «La felicità di tua figlia dipende anche da te. Devi lasciare andare il figlio che non c’è più e accogliere tua figlia che c’è sempre stata». È stata una doccia fredda, ma benefica. Nei giorni seguenti ho compreso che aveva ragione da vendere e il mio cuore si è aperto a nuove intuizioni. La sofferenza che provavo era legittima perché nessuna madre vorrebbe mai fare un funerale, seppur simbolico, alla creatura che ha portato in grembo e che ha amato più di se stessa, ma ho anche compreso che dovevo essere grata alla vita che mi aveva regalato una nuova figlia serena e appagata.
Così ho deciso di partire per Formentera che da sempre rappresenta il mio “buen retiro”; sentivo che c’era ancora qualcosa di irrisolto e speravo che la quiete dell’isola mi aiutasse a capire. E così è stato. Il mare mi ha sussurrato il ricordo di mio fratello Nicola, della sua morte improvvisa e dell’incapacità di elaborare questo lutto, tanto da chiamare mio figlio con il suo nome per avere la sensazione di averlo sempre con me. Il fragore delle onde mi ha spiegato che se non lo salutavo per sempre, non sarei mai stata in grado di dire addio a mio figlio Nicola. Seduta su una roccia, ho scritto una lunga lettera dove gli chiedevo scusa per aver cercato di trattenerlo tutti quegli anni. In cima a una scogliera in compagnia dei gabbiani, l’ho gettata nel vento. E così ho salutato mio fratello Nicola, ho dato il benvenuto a Vittoria e ho salvato me stessa.
Oggi Vittoria o Vicky come la chiamiamo in famiglia, è una giovane donna solare e con tanti progetti. Lei mi ha dato l’opportunità di diventare una persona migliore. Mi ha insegnato che i figli vanno “semplicemente amati” per quello che sono e che le aspettative dei genitori possono venire disilluse perché esiste un progetto ancora più grande da scoprire insieme. Mi chiamo Daniela e sono la mamma di Vittoria.
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