Voto “il cucchiaino d’argento” perché fa bene sognare con il cuore…..ogni tanto, scrive Francesca, una nostra lettrice, sulla pagina Facebook. Vi riproponiamo sul blog la storia più apprezzata del n. 3 di Confidenze
Vedevo ogni mattina quello sconosciuto, lo sguardo triste e in mano uno di quei ninnoli che si regalano ai bambini. Qualcosa in lui mi colpiva, d’istinto gli ho rivolto la parola. Non immaginavo che un gesto così piccolo e impulsivo potesse rivoluzionarmi la vita
STORIA VERA DI LUANA B. RACCOLTA DA IRENE ZAVAGLIA
Mi piace entrare nei bar quando fuori fa freddo. Sciogliersi nel tepore dolce di un locale quando all’esterno si va tutti rannicchiati e col respiro trattenuto è un piacere unico che per un istante ti fa socchiudere gli occhi e ti fa credere che stia per succederti qualcosa di bello. Lo penso tutte le volte che è inverno e oltrepasso la soglia del mio bar preferito, quello di fronte alle scuole medie dove continuo a tornare nonostante i miei figli frequentino ormai il liceo. L’ho pensato anche la mattina in cui ho conosciuto Sandro. Subito dopo aver lasciato Giacomo e Matteo, ero entrata nel bar per il solito cappuccino e, respirando a pieni polmoni l’aroma che inondava il locale, avevo sentito che qualcosa di bello poteva accadere. Non c’era molta gente. L’uomo che avevo notato da diverse settimane se ne stava solitario al consueto tavolino a fissare il vuoto dalla vetrata. Mi incuriosiva quel tizio, avrei dato qualsiasi cosa per sapere cosa ci facesse alla stessa ora nello stesso bar a osservare da dietro un vetro il via vai di una delle zone più trafficate della nostra cittadina.
«Certo che è strano quello» mormorai a Sonia, la barista, che mi conosce.
«Chi, il lupo solitario?» sogghignò lei. «Tutte le mattine occupa il tavolo migliore per un semplice caffè e se ne va quando non c’è più nessuno». Fece roteare gli occhi come solo le bariste sanno fare e, allungandosi sul bancone, quasi mi stesse confidando un segreto, aggiunse: «Luana, se guardi bene, tiene sempre in mano un cucchiaino. Hai presente quelli piccoli, ornamentali, in argento? Ecco, uno di quelli. Lo gira, lo rigira, lo scruta. Mica è normale andarsene in giro con un oggetto simile sempre in mano. Per me è matto da legare, speriamo si decida a non tornare più». Sonia aveva ragione: abbandonato sullo schienale della sedia, le spalle curve, le braccia rilasciate sul tavolo, l’uomo rigirava tra le dita un piccolo oggetto argentato fermandosi, di tanto in tanto, ad accarezzarlo sovrappensiero.
«Buongiorno, posso?». Prima ancora di rendermene conto mi ero avvicinata tenendo in bilico il piattino con la mia tazza di cappuccino fumante. Non ottenni risposta. Il “lupo” si alzò di scatto e, dopo avermi lanciato un’occhiata diffidente, mi piantò in asso senza degnarmi di una parola. Lo vidi pagare in fretta e furia il suo caffè e precipitarsi fuori dal bar come se lo avessero minacciato di morte. Incrociai ancora il suo sguardo rabbuiato per i pochi istanti in cui la vetrata ne proiettò la figura, stretta nel giaccone verde, e poi fui libera di maledire la mia intraprendenza. Come mi era venuto in mente di abbordare uno sconosciuto in un bar? E se si fosse trattato di uno psicopatico, di un galeotto in fuga, di un serial killer? Però era affascinante, considerai in un moto di sincerità interiore. Decisamente trasandato, ma affascinante.
Non lo vidi per un po’. In via del tutto accidentale avevo esaudito il desiderio di Sonia. Finché una mattina, sempre al bar, mi sentii sfiorare una spalla: «Buongiorno, posso offrirti qualcosa?».
Per poco il cappuccino non mi andò di traverso. Arretrai di qualche passo. Lo sconosciuto non si mosse, abbozzò piuttosto a un sorriso, che, sul suo viso tenebroso, produsse l’effetto di intenerirmi.
«È per farmi perdonare dell’altro giorno, non sono sempre così scorbutico».
Si chiamava Sandro. Aveva sicuramente una brutta storia alle spalle e non era molto propenso alle chiacchiere.
«Come mai siedi sempre qui, accanto alla vetrata del bar?» domandai cercando di azzeccare il tono giusto. Sandro sembrò riflettere. Inseguii il suo sguardo che aveva puntato l’esterno fino a individuarne l’esatta traiettoria che terminava a ridosso degli edifici scolastici. Ci mancava solo che avessi incrociato un pedofilo. Rabbrividii.
«C’è mia figlia, in quella scuola» disse lasciandomi di stucco. «Non le parlo da cinque anni, la mia ex moglie me lo impedisce. Vengo qui con la speranza di poterla guardare di nascosto anche per pochi minuti».
Non indagai oltre. Mi bastò la sofferenza che gli contrasse i lineamenti e la foga con cui strinse quel cucchiaino dal quale, sul serio, non si separava mai. Diventammo amici. Quello del bar si trasformò in un appuntamento fisso.Vivevo un periodo della mia vita del tutto immobile. I ragazzi stavano crescendo e acquisivano un’autonomia che spogliava le mie giornate dal ruolo fondamentale di madre onnipresente
in nome del quale avevo consacrato tutta me stessa. Mio marito si era premurato di costruirsi un’esistenza parallela, viaggiava spesso per lavoro e, in molte occasioni, avevo nutrito il fondato sospetto che si trastullasse in una o più relazioni con ragazze sicuramente più giovani di me. Il punto era che non me ne fregava nulla. Avevo trovato la mia zona di confort. C’erano le domeniche da trascorrere tutti insieme, le vacanze a Pasqua e in estate, le disponibilità economiche che ci consentivano di andare avanti in maniera dignitosa, avevo le mie amiche e i miei hobby. Perché avrei dovuto guastare un equilibrio così perfetto? La felicità è spesso un’utopia: un traguardo che tutti ci prefiggiamo di tagliare senza neppure sapere in che direzione andare.
Sandro sconvolse ogni mio assioma. Dal bar ci spostammo all’esterno. Facevamo lunghe passeggiate prive di una meta. Camminavamo per le strade affollate del centro o costeggiavamo la ferrovia contando i binari che ci separavano dalla piccola stazione del paese. Avevamo imparato a parlare. Discutevamo di cose a caso: del tempo, della storia, di politica, del bene e del male che si contendono il mondo. Eravamo un uomo e una donna che avevano superato i 40 anni e che godevano di piccoli momenti di pace ritagliati nella routine quotidiana. Una volta ci imbucammo in un mercato. Le bancarelle variopinte, le urla dei venditori, i sorrisi stampati sui volti di tanti passanti mi misero addosso un’allegria smaniosa e del tutto nuova. Sandro mi camminava accanto. Le spalle sempre un po’ curve, il profilo volitivo ma spento, l’andatura ciondolante di chi teme di non avere più un posto che gli appartenga. Avvertii le nostre mani sfiorarsi: ebbi un tuffo al cuore.
«Posso tenerti la mano?» mi chiese voltandosi appena. Mi sembrò che la voce gli tremasse. Intrecciai le mie dita alla sue e proseguimmo con le mani strette; due innamorati che si sono appena scoperti e che non temono nessun giudizio. La prima volta facemmo l’amore in maniera urgente, come si fosse trattato di una impellente esigenza che non poteva attendere oltre. Sandro mi spinse dentro al portoncino della sua abitazione, incollò la sua bocca alla mia e ci concedemmo l’un l’altra avvinghiati a una parete. Successivamente, e in via del tutto naturale, la nostra missione divenne conoscerci. Trascorrevamo a letto parecchio del tempo che avevamo a disposizione. Ci accarezzavamo per ore, liberi dai limiti mentali delle età più acerbe che temono e tentano di nascondere persino i difetti infinitesimali, quelli di cui non si accorgerebbe neppure Madre Natura in persona. Sandro mi baciava, languido e inesorabile. Percorreva il mio corpo più e più volte, risaliva dalle caviglie, si deliziava all’altezza del pube, affondava nella mia pancia che dopo le gravidanze non era mai tornata piatta e, infine, sprofondava tra i miei seni arrendevoli.
«Sei bella» mi diceva sempre.
«Tu, no» rispondevo io ridendo. «Tu sei troppo spigoloso, dovresti mettere su qualche chilo».
Poi ci amavamo, con esasperante lentezza, fino
a quando i nostri respiri intrecciati non si ritrovavano a mormorare all’unisono, in una forma di stupito, estatico ringraziamento che riuscivamo a rivolgere all’universo per quella miracolosa sincronia di palpiti.
Non mi sentivo per niente in colpa. Il mio matrimonio era inerte da tempo e io mi accorgevo di rinascere a una nuova vita che, sotto gli influssi di quella passione inaspettata, fioriva non come dipendenza dall’uomo che l’aveva risvegliata bensì da una forza interiore che mi ero pressoché scordata di possedere. E questo era un bene, perché Sandro era dominato da ombre che avrebbero potuto trascinarmi insieme a lui nel suo personale baratro.
«Che cosa rappresenta per te quel cucchiaino?» gli domandai un giorno con la chiara intenzione di capire qualcosa in più del suo passato. Avevamo appena finito di fare l’amore e l’occhio mi era caduto sul comodino dove il mio amante aveva disposto con
cura il piccolo cucchiaio dalla forma bombata e con il manico dagli intrecci particolari. Sandro mi avvolse nel suo abbraccio.
«Me lo ha dato mia figlia, qualche giorno prima che mi arrestassero e finissi in prigione».
Trattenni il fiato. Fa un certo effetto scoprire che la persona con cui stai condividendo la tua nudità proviene da un vissuto losco, addirittura dal carcere. Mi raccontò che era stato un imprenditore di successo. Aveva ereditato dal padre una modesta azienda che si occupava di arredamenti da bagno.
«Sai le piastrelle, i mobiletti, le vasche con l’idromassaggio?» puntualizzò osservando divertito la mia espressione incredula. A un certo punto si era voluto ingrandire, fidandosi delle dritte di un amico con cui era entrato in società. Nel frattempo si era sposato ed era nata Gaia, la sua bambina. Per molti anni gli affari erano andati a gonfie vele, avevano viaggiato sulla cresta dell’onda e i soldi erano affluiti in abbondanza. Era stato ottimista, tanto da accettare di occuparsi esclusivamente dei contatti con i clienti e lasciare in mano al socio l’intera gestione economica della società. Quando l’amico era improvvisamente sparito e l’ufficiale giudiziario si era presentato alla sua porta, non c’era stato più niente da fare. Su di loro gravavano numerose denunce per frode fiscale, mancati pagamenti ai fornitori e altri raggiri della legge. A nulla erano valse le giustificazioni che lui fosse all’oscuro della faccenda. Persino la moglie lo aveva condannato. Solo Gaia lo aveva abbracciato forte e gli aveva regalato di nascosto il cucchiaino d’argento che aveva ricevuto dalla nonna in occasione della prima Comunione.
«Papà,» gli aveva sussurrato tenendogli le braccia al collo, «nonna dice che questo è tanto prezioso. Te lo regalo, così puoi venderlo e sistemare tutto. Hai capito, papà? Non lo perdere». Si era fatto sette mesi di galera. Aveva scontato le sue colpe e la sua superficialità. Le banche gli avevano preso tutto, quando era uscito non aveva più niente e nessuno ad attenderlo.
Sua moglie e sua figlia erano state costrette a trasferirsi a casa dei genitori di lei e, dopo avergli chiesto e avere ottenuto il divorzio, quella che aveva creduto essere la sua compagna di vita gli aveva intimato di rimanere lontano dalla bambina per consentirle di dimenticare l’accaduto e di crescere serenamente.
«E tu, in cinque anni non hai mai provato ad opporti, a rivolgerti a un giudice, ad avvicinare tua figlia e a spiegarle cos’era successo?» Ero esterrefatta.
Sandro non rispose, si era di nuovo blindato nel silenzio. Uscì di casa per uno di quei lavoretti occasionali in cui, adesso lo intuivo, sprecava ogni suo talento. Rimasta sola, feci una cosa che non avrei mai immaginato di poter fare: rubai il cucchiino. Mi misi in tasca quell’oggetto che valeva più di tutte le ricchezze della terra e realizzai l’impensabile: lo avrei riconsegnato alla legittima proprietaria.
Gaia l’avevo individuata più volte dalla postazione del bar. Sandro me l’aveva indicata con orgoglio. Era una graziosa ragazzina di 13 anni con una cascata di capelli biondi e la faccia sorridente. Andava e veniva da scuola in compagnia di due amiche. La madre s’era fatta viva solo in un giorno di pioggia.
Quel pomeriggio, all’uscita, ci misi un po’ a ripescarla. La vidi parlottare con alcuni compagni. L’avvicinai tentando di non insospettirla. «Ciao Gaia, sono la mamma di Giacomo e Matteo, frequentano la sezione D, li conosci?». Gaia mi osservò titubante. «Ecco» proseguii «credo di avere una cosa che ti appartiene…». Tirai fuori il cucchiaino e glielo porsi allungando il palmo della mano. Sbiancò, puntandomi addosso gli occhioni chiari con aria interrogativa. «Te lo manda il tuo papà. L’ho conosciuto per caso nel bar qui di fronte, mi ha detto che è la cosa più importante che possiede, perché glielo hai regalato tu e perché tu sei l’amore della sua vita…».
Gaia era chiaramente sconvolta. Forse mi sarei beccata anche io una denuncia per aver molestato un minore. Ma ormai non aveva senso tirarsi indietro. «Lo so che è difficile comprendere le cose dei grandi e che io sono un’estranea impicciona, ma ti prego di credermi, il tuo papà ti vuole immensamente bene. Ha solo paura che tu sia arrabbiata con lui. Se vorrai, potrai trovarlo tutte le mattine al bar, rimane lì per starti un po’ vicino mentre sei a scuola. Pensavo fosse carino che tu lo sapessi».
Gaia si decise a prendere il cucchiaino. Lo strinse forte. «Io non sono arrabbiata con papà» disse soltanto. Poi scappò via senza voltarsi indietro.
I fatti che seguirono furono inevitabili. Sandro non mi volle più incontrare. Io lasciai mio marito. Era tempo che ponessi fine a quel rapporto sterile e che tentassi di essere una donna autonoma e una madre magari meno presente ma senz’altro migliore. Investii i risparmi di una vita in un’attività mia: insieme a un’amica avviai un negozio di oggetti creati artigianalmente. Lo chiamammo di comune accordo: “Il cucchiaino d’argento”. Un giorno si sono presentati un uomo e una ragazzina. Volevano acquistare uno di quei cucchiaini ornamentali di cui il negozio, considerato anche il nome che porta, è sempre ben fornito. Il cuore mi si è riempito di gioia.
«È per ringraziare una persona speciale» mi ha mormorato l’uomo. «L’unica che spero mi faccia ancora l’onore di venire con me al bar. Mia figlia l’ho già ritrovata, la donna che amo non so se mi vorrà ancora». Gaia mi ha sorriso con trasporto. E io non ho saputo fare altro se non ringraziare la vita per tutte le opportunità che sempre ci riserva. ●
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