“La vicenda dell’olocausto ci pone un fastidiosissimo dubbio che riguarda l’oggi: siamo proprio sicuri che cose del genere non accadranno di nuovo? E un altro tormentoso quesito, sempre dell’oggi, potrebbe essere: ma io, in quelle circostanze, cosa avrei fatto? Sarei stato fra i carnefici, fra gli ignavi, o fra gli oppositori? Parlando del nazismo, sarà inevitabile parlare della Germania. Non si vorrebbe puntare il dito solo su di essa, intanto perché massacri sono stati compiuti anche al di fuori dei suoi confini e anche più di recente (tanto per non stare tranquilli), poi perché, pur limitandoci al nazismo, nelle diverse popolazioni europee ci furono coloro che non aspettavano altro che il beneplacito e l’aiuto tedesco per dar sfogo alla più sadica ferocia: la partecipazione attiva dei cittadini di alcuni paesi allo sterminio è ben conosciuta; è tuttavia indubbio che i registi di questo orrore si trovavano in Germania. Dopodiché, in uno scritto che vuole condannare il razzismo e il pregiudizio sarebbe paradossale ritenere i tedeschi fatalmente (biologicamente?) peggiori rispetto ad altri popoli. Per inciso, ricordiamo che della Seconda guerra mondiale furono vittime pure loro: quasi sette milioni di morti, e le vittime civili sopravanzarono di numero quelle militari. Sarebbe consolante pensare che solo i tedeschi potevano perpetrare quegli errori, ma non è così: ‘Il genocidio è un’azione potenziale di qualsiasi nazione’ (R.J.Lifton, I medici nazisti. La psicologia del genocidio, Utet).
Come si è detto e si ripeterà, considerare qualcuno inferiore è una matrice che può essere utilizzata per diverse categorie, quelle che ‘servono’ al momento in base alla contingenza storica, politica o sociale. Ora, per esempio, ‘è funzionale’ prendersela con gli immigrati, meglio qualificati di solito come ‘clandestini’ in modo da etichettarli subito quali fuorilegge. Ciò significa anche, egoisticamente e inevitabilmente, che nessuno di noi è al riparo”.
In occasione della Giornata della Memoria che si celebra come ogni anno il prossimo 27 gennaio non voglio consigliare libri dedicati alla specificità degli eventi e delle storie legate allo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti ma invitarvi a fare un passo in più, a uscire dalla comodità del romanzo o del diario, dalla cornice narrativa che in qualche modo tiene il passato, e i suoi pericoli, lontano da noi.
La normalità del male, parafrasi della Merzagora al testo della Arendt (La banalità del male), è uno splendido saggio che già con il suo sottotitolo ci sferra un bel colpo: “la criminologia dei pochi, la criminalità dei molti”. Il male ci riguarda sempre, penetra in ogni periodo storico secondo dinamiche specifiche e consentite, consentite dai sistemi e anche da noi. La Merzagora sottolinea quanto sia importante non sottovalutare i modi in cui la paura verso l’altro cerca di trovare sfogo: la violenza dei linguaggi propri dei social network, oggi, è una manifestazione non di poco conto, ha corpo, incita, cancella libertà.
Non siamo fuori dai numerosi tunnel dell’ignoranza, del razzismo, dell’etnocentrismo. Se è vero che nulla mai accade in modo identico credere che gli orrori del passato siano confinati al sicuro nei perimetri dei documentari, delle conferenze di Liliana Segre e Sami Modiano (a loro tutto il mio rispetto e affetto), dei giorni delle memorie (assai smemorate e troppo musicate), è un errore di valutazione assai superficiale, assai pericoloso.
Shalom. Pace. Mir. Peace. Paix. Lumana. Fridur. Shanti.
Isabella Merzagora, La normalità del male, Raffaello Cortina Editore
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