Vi riproponiamo sul blog una delle storie più apprezzate del n. 7 di Confidenze
Snob e critica, mia suocera non era affettuosa nemmeno come nonna. Quando è stata operata l’ho accudita io, pensando che potesse cambiare. Non era quella la soluzione
STORIA VERA DI LUCIA G. RACCOLTA DA VINCENZA CASCIO
Un inizio d’autunno freddo e piovoso stava per accogliere le presentazioni ufficiali tra la mia famiglia e quella di Filippo. Temevo da giorni l’avvenimento e avrei voluto posticiparlo all’infinito, ma il mio futuro sposo mi aveva messa spalle al muro. Più passavano le ore e più sfumava la mia serenità. Avevo conosciuto i genitori del mio fidanzato pochi mesi prima e l’impatto non era stato dei più gradevoli. Angela, la mia futura suocera, mi aveva accolto in casa sua con un sorriso appena accennato e una blanda stretta di mano, ritirata subito con espressione seccata, come se avesse appena toccato qualcosa di viscido. Per tutto il pranzo non mi rivolse la parola, ma discorse melliflua, adorante e adorabile, solo con il marito e il figlio. A me dedicò solo un paio di considerazioni banali accompagnate da sguardi antartici, come se non ne valessi la pena. Mai nella mia vita provai una sensazione di disagio tanto insostenibile e quando il pranzo finì, mi ripromisi di rientrare in quella casa il meno possibile. Quella donna emanava una negatività che mi spiazzava, la sentivo addosso e dentro lo stomaco come un pugno. Filippo mi aveva preparata, parlandomene come di una donna molto capricciosa, egoista e snob, ma la realtà dei fatti aveva superato le aspettative. Una volta in auto lui si mostrò profondamente dispiaciuto, mentre la mia tensione a lungo trattenuta sfociò in un pianto colmo di malessere che non riuscii a frenare. Sentivo che quella donna mi avrebbe fatta soffrire molto. Insieme al mio fidanzato decidemmo di limitare il più possibile le occasioni d’incontro: nonostante questo, però, ogni volta lei faceva in modo di ritagliarsi qualche minuto per trovarsi da sola con me, sferrando parole che calpestavano la mia dignità e ritirandosi subito dopo, in modo da non lasciarmi il tempo necessario per difendermi o anche solo per replicare. In realtà io non riuscivo a difendermi, la mia costernazione e la mia educazione mi impedivano di usare parole, toni e sguardi che non mi appartenevano e ogni volta ne uscivo a pezzi, svilita.
La mattina delle presentazioni ufficiali tra le nostre famiglie mi preparai con cura. I miei genitori, persone semplici ma dignitose, comprarono abiti nuovi per l’occasione e prepararono un succulento banchetto, una tavola apparecchiata con eleganza, curata in ogni dettaglio, la casa tirata a specchio. Li conosco bene mamma e papà: ogni cosa era dedicata alla mia felicità e ci tenevano a farmi fare bella figura. Quando arrivarono i genitori di Filippo li accolsero calorosamente. Mio suocero fu educato e gentile, ringraziò per l’invito, lei si limitò a un saluto e alla medesima stretta di mano che aveva riservato mesi prima a me. Il pranzo fu disastroso: lasagne, le abbandonò nel piatto, trangugiò controvoglia qualche pezzetto di arrosto. Mangiò soltanto la torta di pasticceria portata da lei. Rivolse a mia madre sguardi altezzosi e pochissime parole di circostanza. Non dimenticherò mai la sua espressione, né quella di mio padre, quando finalmente
se ne andarono. Mia madre, una volta sola, mi disse: «Quella donna non ti odia perché sei tu, quella donna odia le donne. Vuole primeggiare, vuole sentirsi unica, è una persona disturbata e una manipolatrice. Suo marito mi ha fatto una pena infinita, sembra un burattino a cui vengono tirati i fili per poter esistere. Lucia, non avere paura e non permetterle mai
e poi mai di insinuarsi nel tuo matrimonio, ti farà del male. Tu sappi che dietro di te ci siamo noi, non sei figlia di nessuno». Quanto aveva ragione. Arrivò il giorno del matrimonio: io e Filippo raggianti di felicità, contornati da parenti e amici che parteciparono felicemente alla celebrazione del nostro amore. Una giornata dai toni pastello. “Lei”, vestita totalmente di nero, profuse sorrisi di circostanza, si guardava intorno con disapprovazione, sembrava quasi fosse impaziente di andarsene. Infatti, a metà giornata, finse un malessere costringendo il marito-zerbino ad accompagnarla a casa. Filippo era furioso, consapevole della farsa.
Quello fu l’inizio della “distruzione delle cerimonie”, come le chiamo io: a ogni avvenimento che mi riguardava, compleanno, seconda laurea, nascita e battesimi dei miei figli, lei non perdeva occasione per chiazzare di nero l’importanza di quei momenti, tanto attesi da me e da suo figlio. Trovava il modo di inquinare ogni istante lieto della nostra vita.
Io proseguivo nella mia linea, ovvero non rispondere, ingoiare rospi, permettere a Filippo, figlio unico come me, di avere una continuità affettiva almeno con il padre. Paola e Gabriele, i nostri bambini, erano pressoché trasparenti per lei. Le rare occasioni in cui li vedeva simulava un affettato entusiasmo che perfino loro percepivano perfettamente. Non c’era amore né posto nel suo cuore per i miei figli. Mai una telefonata, un pensierino.
L’unica volta che le chiesi di occuparsi di loro fu quando Filippo ebbe un incidente d’auto: nulla di grave, ma era al pronto soccorso e volevo raggiungerlo subito. Casa sua era di strada andando verso l’ospedale cosi le chiesi questo favore. Rispose dicendomi che, qualora fosse ricapitato un imprevisto, avrei dovuto avvisarla prima. Ero incredula e in quel momento riuscii a vomitare una sola parola: «Serpe, lei è una serpe» le dissi soltanto, girai i tacchi e andai da mio marito che fortunatamente aveva solo bisogno di qualche punto di sutura a un braccio. Mentre uscivamo dall’ospedale chiamò mio suocero per sincerarsi sulle condizioni di Filippo e, una volta saputo che stava bene, cambiò improvvisamente tono e mi urlò contro di tutto: mia suocera aveva avuto un malore a causa mia, disse, non avrei dovuto permettermi mai più di dire certe cose a una donna cosi delicata e amorevole come lei, io ero un’ingrata che era riuscita ad allontanare il figlio dalla famiglia. Mio marito mi strappò il telefono dalle mani e quella volta degenerò anche lui. Per quasi un anno non avemmo nessun genere di contatto, poi una mattina, mentre eravamo tutti e quattro intenti a fare colazione, chiamò mio suocero. «La mamma è ricoverata in ospedale per un’appendicite» disse a mio marito che, seppur di malavoglia, si precipitò in clinica. Fu un intervento di routine, ma per lei, abituata a farsi coccolare e compatire, la degenza durò più o meno sei mesi. Sei mesi in cui mi prodigai tra lavoro, famiglia e casa dei suoceri. Sì, la accudii io. E anche mio suocero, preparando loro i pasti e pulendo la casa. Lei fu fredda ma educata in quei mesi: adagiata nel suo letto come una dea, mi ringraziò persino.
Quando finalmente si decise ad alzarsi dal giaciglio e mettere fine alla sceneggiata, le cose precipitarono di nuovo: ormai non le servivo più. Mi accusò davanti al marito di averle rubato diversi oggetti di valore in quei mesi, di averle somministrato più antidolorifici del dovuto e di averle vietato in tutti questi anni di avere un rapporto con i suoi tanto amati nipotini. «Arpia» mi disse. Arpia. Per la prima volta trovai il coraggio di dirle tutto ciò che pensavo e quando uscii da quella casa mi sentii finalmente libera.
Ormai non mi avrebbe toccata più. Non sarei più stata il cestino dove riversare gli scarti della sua anima incapace di amare. ●
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