“4 dicembre 2001 – hai mai tenuto in mano una pistola e sparato hai sentito il suo peso nel palmo e quanto è pesante e rovente quando fai fuoco?
hai mai detto a un paziente tu sopravviverai sapendo che non ce la farà e lo hai imbottito di calmanti e assistito alla sua morte al suo capezzale?
hai mai sognato il diavolo – come esce dalla riva e avanza verso di te per poi sdraiarsi sotto lo stesso ombrellone – un sogno così reale che al mattino pensavi che stesse respirando contro il tuo viso e non osavi aprire gli occhi?
hai mai detto ti amo anche se non lo pensavi?
sei mai stato in guerra hai ucc
tu hai
io sì”
Pajtim Statovci aveva due anni quando i genitori decisero di lasciare il loro paese e rifugiarsi in Finlandia. La terra dalla quale estrassero le radici per immaginare un futuro che non fosse di morte o miseria si chiama Kosovo. La storia che allo scadere del secondo millennio in quei luoghi si è macchiata di orrore fratricida e disinteresse internazionale è purtroppo storia di serie B; in pochi guardano, hanno guardato, ai Balcani, alla loro dissoluzione. Statovci scrive nella lingua che ha sostituito quella madre dei suoi genitori eppure la consistenza, il colore, il sapore, le figure retoriche sono quelle originali della letteratura slava, narrazione che nasce dove l’Oriente incontra l’Occidente, una faglia geopolitica che da sempre scuote e altera e ridisegna – è un silenzio assordante – gli equilibri del mondo.
Siamo a Pristina, 1995. Arsim è uno studente di lingue, è albanese, ha 24 anni, ha una moglie, Ajshe, un matrimonio quasi combinato. Miloš è uno studente di medicina, è serbo, ha 25 anni. Si incontrano in un bar. Basta uno sguardo. Basta sempre uno sguardo, quando i cuori sono pronti. La guerra sta per esplodere e i due giovani divorano il tempo che il destino sembra aver promesso loro, divorano l’uno il corpo dell’altro. Ma il conflitto è reale e Arsim non può più restare: ha un figlio, non desiderato, e un altro in arrivo, un altro maledetto intralcio. Piangono, Arsim e Miloš, l’ultima notte che passano insieme. Arsim perde il senso di ogni umanità, insieme al suo amore. Ajshe e i figli, compresa la bambina che nascerà in Germania, diventeranno oggetti contro i quali sfogare la sua rabbia, il suo dolore. Nove anni, passeranno. Nove anni a sognare in ogni istante di ritrovare Miloš, nove anni a vivere di rimpianti. Nove anni di nulla, in attesa. Dov’è Miloš? Dove?
Una storia d’amore? Anche, certo. Solo che Statovci è immenso, non scrive per incantare ma per risvegliare, e l’amore lo porta sulla carta com’è: una follia, una vertigine, uno spasmo, un’illusione, una fuga, una scusa. L’amore è la spiegazione di ogni aberrazione: l’amore per una terra da conquistare o difendere che spinge a uccidere, l’amore per un’assenza che spinge a mentire e usare, l’amore che non ha forza abbastanza per mettersi alla prova, per misurarsi con la realtà. L’amore che diventa malattia, odio, buio pesto, morte. L’amore che se non sfoga ulcera e divora ogni altra cosa. L’amore ha sempre mosso, o paralizzato, la vita.
Lirico, crudo, bellissimo. Indimenticabile. Mi unisco alla critica mondiale che, unanime, lo ha osannato.
Pajtim Statovci, Gli invisibili, Sellerio
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