Vi riproponiamo sul blog una delle storie più apprezzate del n. 51 di Confidenze
Io e Liliana non eravamo destinati a stare insieme. Sulla nostra unione pendeva un veto insormontabile e alla fine avevamo rinunciato l’uno all’altra. Ma il corso degli eventi è imprevedibile e ancora una volta decise per noi
STORIA VERA DI NINO F. RACCOLTA DA BARBARA BENASSI
Mi volta la schiena, la luce le illumina il profilo. I capelli raccolti, il collo sottile, il vestito che le cade morbido sui fianchi. Si muove con grazia come allora e come allora i miei occhi la guardano. È bellissima.
La finestra è aperta, il sole autunnale filtra dalle persiane della nostra cucina e dal pavimento solleva un pulviscolo di ricordi.
Era un autunno asciutto e polveroso anche a quell’epoca. Liliana e io ci rincorrevamo per la stanza, urlavamo, ridevamo. Sul tavolo i nostri quaderni di scuola, i pennini, l’inchiostro. Finiti i compiti, ogni volta la stessa storia. Sua madre Ada, mia zia, impazziva per tenerci fermi. Eravamo inseparabili l’uno per l’altra, lei mi aveva salvato e io le avevo dato il mio cuore.
Ci eravamo scelti e badavamo a tenerci ben stretti.
I nostri padri, due giganti buoni, divisi solo da poco più di un anno l’uno dall’altro, erano fratelli, anche loro affiatati, legati, unitissimi.
I due, Adelmo e Benso, avevano sempre diviso tutto e quando era giunto il momento di prendere moglie, avevano deciso di sposarsi all’inizio della primavera, lo stesso giorno, nella stessa chiesa. Le spose giovani, avvolte in abiti di pizzo bianco, stringevano entrambe un bel mazzetto di fiori di campo.
Si festeggiò a lungo e gli ospiti vennero da tutti i dintorni.
Non molto dopo la prima notte di nozze, mia madre fu la prima ad annunciare alla famiglia la bella notizia di essere incinta, poi mia zia Ada la seguì a breve distanza.
Era il 1946 e quando venni al mondo i miei mi chiamarono Nino, come il nonno paterno. Qual- che mese più tardi, mia zia partorì una bambina dai capelli rossi e gli occhi verdi che chiamarono Liliana. Dopo di lei seguì un’altra figlia femmina, Mara, mentre a mia madre, malgrado i tentativi, non furono concessi altri bambini. E in poco tempo i miei genitori si adattarono a quella che chiamavano la “volontà del cielo”.
Ma la “volontà del cielo” non si fermò solo a questo. Una sera d’estate, mentre i miei stavano tornando a casa, il loro biroccio ruppe una ruota e si ribaltò nel canale dove tutti, cavallo compreso, trovarono la morte. Ero piccolo, avevo solo quattro anni, ma ricordo ancora il dolore profondo per quella perdita atroce.
Orfano, venni accolto a braccia aperte dai miei zii che non fecero mai differenze e mai mi considerarono meno di un figlio a tutti gli effetti. Malgrado ciò, per molto tempo rimasi chiuso in me stesso, affranto da una sofferenza cupa che non mi dava tregua.
Mia zia, a un certo punto, arrivò a pensare che sarei rimasto schiacciato per sempre sotto il peso di quel dispiacere. E forse avrebbe avuto ragione se in quel momento nero mia cugina Liliana, una bambina di quattro anni come me, non fosse riuscita a rompere le barriere della mia disperazione e a scaldarmi il cuore. Con i suoi gesti gentili, la sua gioia discreta, il suo sorriso costante, mi portò fuori dal buio. Mi teneva la mano prima di dormire, mi stringeva a sé quando piangevo e con il suo amore fanciullo riuscì ad allontanare la mia angoscia e a farmi sorridere di nuovo. Se già ci volevamo bene prima, dopo la disgrazia eravamo diventati inseparabili. E per tanto tempo da allora ci fu concesso di percorrere molta strada insieme. Insieme frequentammo le elementari e le medie gestite dalle suore. Come tutti i bimbi del paese, partivamo la mattina sui carri dei contadini trainati da cavalli, visto che dove vivevamo non c’era nessuna scuola e per raggiungerla avremmo dovuto fare troppi chilometri a piedi.
All’inizio ricordo che su quei birocci ero terrorizzato, tremavo pensando alla fine terribile dei miei, ma Liliana placava la mia paura abbracciandomi forte. Fu quella stretta a farmi arrivare sano e salvo a scuola per tanti anni. Liliana era davvero speciale. Già alle elementari aveva capito che voleva insegnare. Infatti, noi di quinta condividevamo l’aula con i bimbi di seconda e la maestra nominava alcuni alunni più grandi come aiutanti. Liliana era fra questi. Quell’esperienza la segnò per la vita. Io invece, malgrado fossi molto portato per le materie scientifiche e avessi dei buoni voti, ero talmente vivace che della scuola non mi è rimasto un buon ricordo, ero sempre in punizione.
Comunque, nonostante fossimo diversi, a mano a mano crescevamo, il nostro legame diventava sempre più profondo.
Finite le scuole medie, a differenza dei nostri parenti, Liliana e io decidemmo di continuare a studiare. Ai tempi, nel nostro paese, per una donna lo studio non era ritenuto importante, ma lei insistette tanto per andare alle Magistrali, visto che voleva diventare maestra. Io invece senza difficoltà mi iscrissi all’Istituto Tecnico Industriale poco lontano dalla sua scuola. Al mattino partivamo e impiegavamo due ore di corriera per arrivare nel capoluogo. Non facevamo che ridere e divertirci, ma in seguito le cose cambiarono.
Nessuno di noi due avrebbe potuto dire
di preciso quando accadde. Da principio non lo notammo e continuammo a comportarci come sempre trascorrendo insieme ogni istante possibile, poi ci accorgemmo di essere attratti uno dall’altra e che quando ci toccavamo un’eccitazione sconosciuta ci vibrava sotto la pelle. A poco a poco scoprimmo di amarci e il piacere di stare soli. Per quanto pensassimo che l’amore avrebbe vinto su tutto e che comunque non fossimo fratelli, ma solo cugini, conoscevamo entrambi fin troppo bene le regole della nostra terra e sapevamo che la nostra unione sarebbe stata considerata un disonore per la famiglia. Ma il sentimento e la passione che ci legavano erano più forti e a poco a poco ci rendemmo conto che il viaggio in pullman e le pause scolastiche non erano più sufficienti a tenerli a freno. L’unica che sapeva di noi era Mara, la sola di cui ci fidassimo e che spesso ci copriva. «È un mondo ingiusto» mi lamentavo. «Scapperemo!» mi rispondeva Liliana.
«Io ti seguirò ovunque. Nulla potrà separarci». Eravamo talmente ebbri di noi che diventammo incuranti e imprudenti su tutti i fronti.
Un pomeriggio d’estate, durante uno dei nostri incontri nel fienile, stremati e senza pensieri come solo i giovani innamorati possono essere, ci addormentammo l’una nelle braccia dell’altro. Non so dire per quale motivo ma mia zia, che non veniva mai in quella parte della cascina, ci vide. Non ci svegliò, ma dopo due giorni mi prese da parte e mi disse: «Sai che per noi e per tutti sei nostro figlio e per questo sai anche che in nessun caso potrai stare con Liliana come tu vorresti».
Ero scioccato, ma dopo essermi ripreso dalla sorpresa, risposi che ci eravamo informati, che nessuna legge vietava il matrimonio tra cugini. Per alcuni sposare un cugino risultava sconveniente, per altri invece era una cosa del tutto normale. Dipendeva dalla cultura. Ci potevamo sposare con rito civile senza problemi come tutti gli altri e per la chiesa ci voleva solo una dispensa.
«Zia, Einstein e sua moglie Elsa erano cugini, la regina Vittoria e suo marito il principe Alberto pure» insistevo disperato cercando di convincerla.
«Nino, loro hanno avuto altre vite. Qui lo scandalo ci sotterrerebbe tutti. So quanto il vostro sentimento sia profondo e sono dispiaciuta per voi, ma in un paese di montanari come il nostro, una cosa del genere non è possibile» mi rispose lei con occhi umidi e tristi ma al tempo stesso risoluti.
Subito dopo parlò anche con Liliana, con gli stessi toni addolorati e decisi, ma ottenne le stesse mie risposte.
Così, senza dire nulla a nessuno sull’accaduto, il suo primo provvedimento, a malincuore, fu separarci.
Io, che dovevo finire l’ultimo anno di superiori rimasi a casa, mentre Liliana, che si era già diplomata visto che le magistrali duravano quattro anni, venne mandata in un altro paese, presso una sorella di mio zio, a fare praticantato nella scuola elementare.
Malgrado ciò, non ci scoraggiammo e ci scrivemmo tantissimo, elaborando progetti per fuggire presto insieme. Il nostro amore era la nostra garanzia. Eravamo sicuri che tutto sarebbe andato bene come era giusto che fosse.
E all’inizio tutto sembrava procedere a meraviglia.
Dopo aver superato la maturità con un ottimo risultato ero deciso a trovare lavoro. Dopo alcune domande inviate a istituzioni e aziende venni chiamato da un ente pubblico di ricerca nazionale per usufruire di una borsa di studio per tecnici diplomati. Perciò mi trasferii nel capoluogo e vi rimasi un anno, poi parte- cipai a un concorso interno per entrare di ruolo. Lo vinsi e quando fui confermato mi destinarono come tecnico alla sede francese.
Avevo finalmente un lavoro sicuro.
Tutti a casa erano orgogliosi. Mio zio non faceva che ripetere: «Il mio povero fratello sarebbe felice di veder sistemato il suo bel figlio maschio. Che poi è anche il mio…».
Ma la cosa fondamentale era che ora Liliana poteva contare su di me e raggiungermi. Non le importava nulla di lasciare l’Italia, anzi più lontano andavamo meglio era e col tempo senz’altro le cose si sarebbero aggiustate.
Eravamo in trepidazione, dopo tanta attesa il nostro sogno stava per avverarsi.
Sennonché, due settimane prima della partenza fissata da Liliana per raggiungermi, sua sorella Mara, su una strada che aveva fatto migliaia di volte, con la bicicletta scivolò in un calanco. Ancora una volta la ”volontà del cielo” cambiò il corso della mia vita. Quella caduta apparentemente banale costrinse una ragazza così giovane su una sedia a rotelle a vita, lasciando tutti noi affranti e addolorati.
E la prima a reagire a questo dramma fu proprio Liliana. Ricevetti una lettera che ricordo a memoria ancora oggi. Mi scriveva che dopo lunghe riflessioni e tormenti, non se la sentiva di lasciare sola la sorella con due genitori anziani, in un paese dell’Appennino privo di infrastrutture adatte e che, malgrado il suo cuore fosse a pezzi, sapeva quale fosse il suo posto. Mi amava profondamente, ma forse non eravamo destinati a stare insieme, forse quella era la ”volontà del cielo” e come tale andava rispettata. La sua vita era lì con Mara, per aiutarla a studiare da privatista per diventare segretaria e per dividere con lei la sua esistenza.
Subito avrei rinunciato a tutto per tornare al paese e vivere con loro malgrado lo scandalo, ma poi, pazzo di dolore e d’amore per Liliana, mi obbligai a prendere tempo e ad accettare la sua scelta. Il mio lavoro, che mi appassionava molto, mi aiutò a trovare un po’ di pace. ”Se magari un giorno Liliana cambiasse idea e riuscisse a sistemare la sorella, io sarò sempre qui ad aspettarla” mi ripetevo per consolarmi.
Gli anni passavano e Liliana, nelle sue numerose lettere, mi aggiornava su tutto. Mi raccontava di Mara, che si era diplomata, e del suo progetto di aprire una scuola elementare nel nostro paese. ”Finalmente i bambini andranno a scuola a piedi. Ti ricordi come tremavi su quel biroccio? Per me è un po’ come se lo facessi per te, mio adorato”. Io rispondevo sostenendo ogni sua idea. Era una donna in gamba e non facevo che ripeterglielo.
Poi un giorno mi scrisse: ”Caro Nino, ho conosciuto un ragazzo di nome Otello, anche lui insegnante, che mi sta aiutando con l’apertura della nostra scuola. Pensa che le classi sono già tre. Grazie a lui potrò inserire anche Mara nell’organico della segreteria. Dopo la disgrazia di mia sorella, ti confesso che solo ora comincio a sentirmi bene”.
Mia zia, nella lettera che mi inviò subito dopo, sempre affettuosa e piena di premure materne per me, mi supplicava di provare ad essere felice lontano da Liliana e di darle la possibilità di farsi una vita lì al paese dove sembrava aver trovato un po’ di serenità. Non nominava Otello, ma lo sentivo comunque presente fra le sue parole.
Ammetto che i miei erano sentimenti contro- versi: amavo quelle persone e al tempo stesso mi sentivo ferito da loro.
Capii così che dovevo smettere di nutrire speranze, che dovevo interrompere la mia corrispondenza con Liliana e che per certo non sarei tornato al paese per molto tempo. Rimasi in quello stato di isolamento per anni, vivendo per il mio lavoro, smarrito in una sorta disperazione muta e soporifera, nell’attesa della donna che amavo, consapevole che non sarebbe potuta arrivare mai. Ero cieco ai paesaggi, alla gente, agli spettacoli e alle numerose novità che un paese vivace come la Francia aveva da offrire.
Uscivo di rado, se non per lunghe passeggiate lungo gli argini del fiume che lambiva la città o in rarissime occasioni speciali per incontrar- mi a bere qualcosa con i miei colleghi dell’ente di ricerca.
Fu proprio in una di queste circostanze che una sera conobbi Nadine. Era insieme a un’amica e fin da subito, malgrado non fossi abituato alla compagnia femminile, mi sentii a mio agio. Ai tempi non parlavo molto, ma con questa ragazza timida, dai lineamenti delicati e dagli occhi neri come catrame, sentii che potevo aprire il mio cuore. E non avevo torto.
Con Nadine iniziò un nuovo periodo della mia vita, il mio cuore ricominciò a battere e ripresi a guardare verso il futuro.
Dopo il matrimonio nacque nostra figlia Cloe, una bambina vivace e sensibile che finalmente riuscì a farmi sentire la Francia come la mia casa.
Avevo finalmente raggiunto un mio equilibrio e ne andavo molto fiero, quando un giorno inaspettatamente arrivò una lettera di Liliana. Rimasi a fissarla a lungo prima di aprirla. Era bastata la sua calligrafia sottile e garbata per dare alle mie mani un lieve tremore. L’Italia, il paese, le montagne, le mie radici in un attimo erano tornate a prendermi. Liliana, con il suo tono affettuoso, mi scriveva che mia zia, sua madre, stava molto male e che più di ogni altra cosa, prima di morire, desiderava che io fossi lì insieme alle sue figlie per un ultimo saluto.
Addolorato e afflitto, immediatamente mi organizzai con lavoro e famiglia per tornare a casa accompagnato da mia moglie e mia figlia. Fortunatamente arrivammo appena in tempo, mia zia non parlava più ma era ancora cosciente e morì serena la notte dopo il nostro arrivo.
Malgrado l’occasione triste, riunirci e stringerci di nuovo fu bellissimo. I miei vollero sapere tutto di me. Raccontai loro del mio incontro con Nadine, del nostro fidanzamento di circa un anno, della nascita di nostra figlia Cloe e di come quel- la bambina fosse riuscita a farmi riscoprire il piacere delle piccole cose, dei giochi delicati dell’infanzia e della meraviglia che si nascondeva dentro tutto ciò che guardavo attraverso i suoi occhi.
A mia volta seppi che Liliana si era sposata con Otello e che di comune accordo avevano divorziato dopo dieci anni di matrimonio, che Mara aveva sempre lavorato presso la segreteria della scuola elementare che tutt’ora funzionava benissimo. Mia moglie venne accettata con amore da tutti e Cloe trovò un nonno e due zie adorabili pronti a darle il calo- re della famiglia italiana che non aveva mai conosciuto.
Tutti ci accolsero con un tale affetto che ne fummo letteralmente conquistati, tanto che da allora, ogni estate tornammo al paese sull’Appennino tosco emiliano in vacanza. Di nuovo eravamo una grande famiglia e nessuno parlò mai del passato.
D’altronde non c’era motivo di creare false preoccupazioni, visto che non mi ero mai sentito di raccontare a Nadine della mia relazione con Liliana, del nostro amore profondo e ostacolato. Ora lei era mia moglie, io l’amavo e non avevo intenzione di ferirla in alcun modo, né tantomeno di angustiarla con sospetti inutili. Anche Liliana dal canto suo la pensava come me, ormai era trascorso tanto tempo ed era felice così, di avermi di nuovo in famiglia e di condividere le estati insieme alle persone che amavo e che amava anche lei. Ma il passato, si sa, sbiadisce e non si cancella e per me non fece eccezione.
Dopo più di tre decenni di vita insieme, Nadine, anche se più giovane di me, si spense per una malattia fatale. Affranto, rimasi in Francia con mia figlia, poi dopo due anni nacque in me il desiderio di ritirarmi definitivamente al paese. Prima di partire raccontai a Cloe la mia storia con Liliana, e dopo un suo primo turbamento, le spiegai che avevo amato sua madre con tutto me stesso, ma che in fondo al mio cuore avevo conservato anche l’amore per Liliana, intatto e puro. Forse, vista l’età, le feci tenerezza o pena, non so, ma lei capì e quando partii mi abbracciò forte.
La finestra è aperta, qui in paese l’autunno è asciutto e polveroso e il pulviscolo dei ricordi si deposita leggero sulla tavola imbandita. Oggi ci sarà un banchetto per me e Liliana. Insieme agli invitati, brinderemo a tutti i nostri cari che non ci sono più e leveremo in alto i calici alla ”volontà del cielo” che ci ha concesso di percorrere insieme i primi passi della nostra vita e di essere qui oggi per percorrere insieme anche gli ultimi. ●
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