Storia di Federica F. raccolta da Daniela Granieri
«Tra un mese parto. È deciso». Me lo dici così, senza alzare gli occhi. Le braccia incrociate sul petto dichiarano che stai sulla difensiva. E non mi guardi. Eppure te l’ho detto che non piangerò, che non mi strapperò i capelli e non mi produrrò in scene isteriche.
«Ok» rispondo, fissando un punto indefinito che si trova tra la poltrona e il tavolino da fumo. Sei stupito. Non mi credevi capace di tale distacco. E sei sollevato al pensiero che non ti creerò problemi e non ti farò venire i sensi di colpa. Sorridi quasi, adesso, mentre io vorrei solo vederti strisciare ai miei piedi, da verme che sei. Voglio stupirti ancora di più, e voglio che tu sparisca dalla mia vista e dalla mia vita il prima possibile: «Comincia a preparare le tue cose, Franco». Il mio sorriso si allarga, di fronte alla tua espressione.
«Adesso?» mi dici: «Ma è presto Federica, manca un mese». La rabbia sale dallo stomaco alla gola, come un’onda cattiva, e stringe forte. Ma mi impongo di non fare scenate: «Non pensavi certo di stare qui nel frattempo, spero». Lo so che non avevi nemmeno preso in considerazione la possibilità che ti mandassi via, dato che sono cinque anni che vai e vieni a tuo piacimento, e mi hai sempre trovata ad aspettarti come una perfetta scema.
«Veramente, sì. Pensavo di trascorrere insieme questi giorni, prima che io…».
Prima che tu voli dall’altra parte del mondo, dove un’altra vita ti aspetta. Un lavoro, una casa. Una donna. Chissà, forse anche un figlio. Visto che con te non si sa mai. «Mi sembra davvero fuori discussione Franco. Tra te e me è finita. Da qui te ne vai. E velocemente». Il mio tono non ammette repliche e Franco non ha alcun appiglio da afferrare.
«Se questo è quello che vuoi». E risentito mi gira le spalle e sale le scale che portano alle camere.
Sento un trambusto al piano di sopra. Cassetti aperti e richiusi con forza, sportelli sbattuti. Immobile, aspetto. Passerà. Tutto passa nella vita. I minuti scivolano, scanditi dal ticchettio assordante dell’orologio a pendolo che mi regalasti tu. Lo butterò. Butterò ogni cosa che mi ricordi il tuo passaggio nella mia vita. Hai preparato un borsone e una valigia. Le cose necessarie per liberarmi della tua presenza. Hai un ghigno spiacevole mentre lo dici, vorresti addossarmi colpe che non ho. Non raccolgo la provocazione e gentilmente, Dio solo sa quanto mi costa, ti invito a uscire dalla porta che ho appena spalancato. Nessun abbraccio di commiato, nessun bacio. Mille rimpianti e mille rimorsi. Non ti guardo salire in auto, rimango immobile, appoggiata allo stipite del portone, attendendo che il rombo del motore si allontani. Silenzio. La casa è vuota. Tiro un sospiro. Sollievo, delusione, dolore. Ho bisogno di una doccia, di dormire, di uscire. Di fare qualcosa che ammortizzi un po’ il male che sento. Lo specchio mi rimanda un’immagine di me troppo magra, i capelli lunghi cadono in ciocche attorno al viso pallido, dove le occhiaie spiccano come una maschera mal riuscita. Mi compiango un po’: «Povera Federica, l’unico errore che hai fatto è stato quello di innamorarti di un grande egoista, un ragazzino superficiale, uno che pensava a sé, poi a sé, e infine a sé. Povera illusa. E tu che gli hai dato tutto, hai sopportato le sue assenze, le sue bugie, i suoi tradimenti in cambio di una carezza ogni tanto. Come un cucciolo affamato».
Tutto mi sembra irreale. Non mi sento più io. Non sono più io. Mi asciugo in fretta, strofinando la spugna con vigore. Getto via il suo bagno schiuma, il dopobarba, il pettine. Potessi, getterei i ricordi degli ultimi cinque anni. Se potessi. Cerco di scuotermi, mi dico e ridico che ho fatto bene, che era l’unica scelta possibile per non venire sopraffatta, per non soffrirci ancora di più. Ho già pagato abbastanza in nome di un amore che amore non è. Non è mai stato. Non per te. Ho maledetto spesso il giorno in cui ti ho incontrato. Una banale cena con amici. Non ti avevo mai visto prima, ma avevo spesso sentito parlare di te. L’uomo sfuggente, refrattario a relazioni impegnative. Bello e dannato. O solo dannato. Dall’altro capo del tavolo, ti studiavo di sottecchi, incuriosita. Sentivo a malapena le battute spiritose, la parlantina sciolta, il fare accattivante. Avevano messo un po’ di musica nel locale, un microfono passava di mano in mano, e canzoni stonate e risate imbarazzate si rincorrevano. Mi ero ritrovata a cantare in un improbabile duetto con te. Ci divertivamo come due ragazzini, mentre una corrente strana passava tra noi. Bella serata. Ci eravamo scambiati i numeri di telefono, e uscivamo spesso con la compagnia. Un feeling si era creato tra noi, serata dopo serata, risata dopo risata. Senza nemmeno accorgermene mi ero trovata legata a te. Bello, gentile e simpatico era fin troppo facile farmi perdere la testa, farmi innamorare. La mia casa era diventata velocemente il nostro luogo di incontro. Tu nella mia cucina che godevi del mio cibo e del mio vino. Tu che ascoltavi musica rap sdraiato sul mio divano di pelle. Tu che mi rubavi lo shampoo e la spazzola. Tu nel mio letto. Le tue mani, il tuo corpo, il tuo odore. Mi bastava, mi inebriava. Anche se la tua simpatia dopo un po’ mi era sembrata superficialità. La tua mancanza di attenzioni, disinteresse, e non dimenticanza. Però ti amavo e trovavo mille giustificazioni. Alla fine casa mia era diventata anche casa tua. La mia vita era la tua, mentre tu non rinunciavi a niente. Partivi, tornavi, non ti facevi sentire. E poi ti presentavi con quel maledetto sorriso e io non riuscivo a tenerti il muso. A stare lontana da te. Fino a oggi. Perché arriva un giorno in cui sai che è troppo. Troppo quello che hai dato, troppo poco quello che hai ricevuto. Finalmente vedi chiaramente e cogli l’attimo in cui senti di avere il coraggio di fare la scelta. Ho aspettato fino all’ultimo, sperando che tu preferissi me. Noi. Invece hai preso la palla al balzo. E te ne vai. Brasile.
Ci sei stato tante volte, e tante volte mi sono chiesta quante “lei” potevi avere là. «È una grande occasione, un Paese in espansione, un mondo diverso» mi dicevi. Parole. Io non conto nulla. Conta solo la tua libertà. E il tuo egoismo. Basta. Fa male, farà male. Ma basta. Ho un messaggio su WhatsApp. Cecilia mi chiede se ce l’ho fatta. Le mando una faccina sorridente. Vuol sapere come sto. Altra faccina sorridente. Mi passa a prendere tra un’ora. Vuole portarmi fuori. Non mi va molto, vorrei star qui a piangermi addosso tutta la vita, ma con Cecilia non si scherza. Le lancio un secco “ok” e cerco di rendermi presentabile. Ci riesco quasi, dato che quando arriva mi dice che non faccio proprio schifo. Grande soddisfazione… Cecilia è un’insegnante di sostegno, si occupa dei bambini che hanno dei deficit motori o di apprendimento. Ama il suo lavoro, ama questi ragazzi che, dice lei, le hanno insegnato un mare di cose che non si imparano sui libri. «Amano e basta Federica. Non si chiedono nulla». Ed è vero. Sono andata spesso con lei a trovare i suoi allievi e ogni volta mi sono stupita della grande empatia che Cecilia riesce a stabilire con loro.
Sta guidando verso un maneggio. Alessandro la sta aspettando impaziente. È un ragazzino sui tredici anni, è mingherlino e timidissimo e non socializza facilmente. «Sei arrivata finalmente!». E si lancia verso Cecilia che lo accoglie in un abbraccio caloroso.
«Scusa il ritardo, Alessandro. Tutta colpa di Federica». Il ragazzo finge di guardarmi malissimo e poi ride sottovoce: «Andiamo?». Certo, andiamo. Luca, l’istruttore, controlla che i finimenti del cavallo siano a posto, allaccia il cap ad Alessandro, lo aiuta a salire in sella. Controlla la posizione, gli dà qualche consiglio e poi, soddisfatto, ci dà l’ok. Alessandro cavalca adagio, lisciando la criniera del docile animale. Cecilia e io cavalchiamo accanto. Al passo, imbocchiamo un sentiero, il preferito di Alessandro. Lui conosce il tragitto a memoria. Per lui è una necessità sapere esattamente cosa troverà al passo successivo. Non lascia niente al caso. «Attenta, più avanti c’è una buca… a sinistra c’è un ramo molto basso». Ride, e la sua risata è così rara e contagiosa da far stringere il cuore. La nostra passeggiata prosegue. Cecilia ha portato un paio di panini e succhi di frutta per noi, e mele per i cavalli. Improvvisiamo un picnic che manda in estasi Alessandro. Ha una capacità di godere delle piccole cose che io non ho più da tempo. «Senti che buon profumo» mi dice porgendomi un bocciolo fiorito fuori stagione. Ha ragione, profuma. «Ma non lo sciupare. Voglio portarlo alla mia mamma» mi dice.
Facciamo ritorno al maneggio: sono passate due ore e non me ne sono accorta. Lucia e Massimo, i genitori di Alessandro, ci stanno aspettando. «Ecco il mio uomo preferito» esclama Lucia mentre aiuta Alessandro a scendere da cavallo. «Com’è andata l’avventura oggi? » chiede Massimo. «Tutto bene papà, siamo stati…». E riassume a modo suo quelle due ore di passeggiata. Lo ascolto incantata. Ha visto gli uccelli, e le lucertole. Ha dato la mela al suo cavallo e si è sporcato una mano. Ha tentato qualche passo al trotto, ma pochi pochi. E ha visto me ridere di gusto quando Cecilia è inciampata su una radice ed è atterrata senza conseguenze in una pozza di fango. «È forte Federica, sai mamma?». E mi fa l’occhiolino. «Ma un fidanzato ce l’hai?» mi chiede con tutta l’innocenza del mondo.
«L’ho licenziato».
«Non ti piaceva più?». Lucia lo riprende fermamente. Non si fanno gli interrogatori alle persone. Alessandro abbassa lo sguardo in segno di scusa, ma io rispondo, senza pensare, che no, non mi piaceva più e che adesso mi fa un po’ male dalla parte del cuore, ma sono sicura che andrà meglio. alessandro mi guarda interessato. Sembra studiare oltre le parole, sembra volermi leggere nell’anima. «Allora puoi venire anche domani se non hai un fidanzato».
Domani non lo so, ma tornerò sicuramente. È una promessa. Il sole sta morendo e comincia a rinfrescare. Lucia passa un giubbotto ad Alessandro, che se lo infila riconoscente. «Sei un amore di mamma» le dice. «Questo è per te» e le porge il fiore conservato durante il tragitto.
A Lucia si riempiono gli occhi di lacrime. Massimo le prende una mano e gliela stringe forte. A volte le difficoltà dividono, altre uniscono. E loro sono una famiglia. Vera. Sorrido mentre il nodo che ho nello stomaco si allenta un po’. Sono belli, sono uniti. Si amano. Li saluto con un abbraccio. Non sanno che in questa giornata buia loro hanno acceso una luce. Alessandro mi stringe forte. «Ti aspetto domani».
E io ci sarò.
Testo pubblicato su Confidenze 3/2015.
Foto: 123RF
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