Storia di Gilda V. raccolta da Anna Magli
Ci mancava solo la lettera urgente da spedire stasera per rovinarmi la giornata. Ero già sulla soglia dello studio quando l’avvocato mi ha intercettato per dettarmi quella mail che assolutamente doveva partire entro stasera. Se invece di stare a giocare a golf tutto il pomeriggio venisse in studio a un’ora decente, pensando anche a chi, come me, ha una casa e una famiglia a cui stare dietro. E adesso? Sono le sette e io devo ancora fare la spesa, senza contare che ho dovuto chiamare mia cognata per chiederle di stare con Lisa. Sono stanca e avvilita. Stufa di questa vita sempre di corsa, dei soldi che non bastano mai. Fino a due anni fa avevo un bellissimo contratto part time che mi permetteva di seguire mia figlia e di badare alla casa. Poi la crisi, mio marito in contratto di solidarietà e la necessità di lavorare a tempo pieno. Mentre arranco nel traffico penso a com’era bello potersi permettere ogni tanto un weekend al mare. Adesso anche mandare via la piccola una settimana con la parrocchia sembra una spesa esagerata. Di vacanze, poi, non ne parliamo. Sono stanca e inacidita verso una vita che non prende mai la piega giusta; nonostante si facciano tanti sacrifici per arrivare alla fine del mese, è sempre più difficile. Prendo al volo un carrello e butto dentro alla rinfusa quello che mi servirà nei prossimi giorni: pasta, pelati, olio, biscotti, non quelli che piacciono a Lisa che costano un occhio della testa. Guardo rancorosa il carrello di una giovane donna, pieno di sacchetti della gastronomia. Magari è single o forse suo marito guadagna bene, si vede anche da com’è vestita: cappotto di cachemire, scarpe di pelle, fresca di messa in piega. Mi specchio in una vetrina e vedo un viso arcigno che non sembra quello di una quarantenne: capelli arruffati con una ricrescita impresentabile. Da quanti mesi non vado dal parrucchiere? Mentre esco, passo davanti al reparto abbigliamento. Quanti bei vestiti, avrei bisogno di così tante cose. I prezzi sono anche buoni e un cappotto nuovo mi servirebbe proprio. Il mio montgomery è talmente logoro che evito persino di portarlo in tintoria. E guarda che belli questi leggings rosa, come starebbero bene a Lisa. Meno male che almeno lei ha il vantaggio dei vestiti smessi di sua cugina. Mia sorella non lavora, ma suo marito ha un buon stipendio e ogni stagione rinnova completamente il guardaroba alla figlia. Un po’ invidio questo suo benessere, non sopporto più lo sguardo perplesso che lancia ai miei vestiti. Sarà meglio che torni a casa, tanto qui non posso comprare niente.
Sto per imboccare la scala mobile quando lo vedo. Faccio un rapido dietro front, lascio il carrello e affondo le mani in quel morbido foulard di seta dai colori dell’arcobaleno. Dio, che meraviglia. Ampio, quasi come uno scialle, dai colori che sfumano in tutte le tonalità dell’indaco, e così morbido. Lo avvicino al viso e mi guardo in uno specchio. La commessa mi vede e come un avvoltoio mi si fionda addosso: «Le sta benissimo, signora » cinguetta professionale. «Ha visto come cambiano i colori a seconda di come lo avvolge? E le dà anche molta luce al viso. Siamo tutti così palliducci in questa stagione».
“Ma cosa vuoi saperne tu, brutta stupida, del mio viso spento?” penso, mentre le sorrido falsamente, “del perché sono palliduccia? Ti alzi per caso anche tu alle cinque di mattina? Tu che hai le unghie di una che non lava mai un piatto e un colorito di chi ha fatto almeno un mese di mare. Fai forse le pulizie prima di uscire di casa o stai mezz’ora davanti allo specchio a truccarti? Ma che vuoi sapere…”. E mentre continuo il mio muto interrogatorio, le sorrido e mormoro: «No, grazie. Magari un’altra volta».
«Guardi, signora, che è un affarone, è in offerta a soli 30 euro e pensi che costava almeno il doppio. È seta pura, non roba indiana».
Sobbalzo quasi mi avesse punto un’ape. Solo 30 euro? Per me sono un sacco di soldi, ci faccio la spesa. Com’è possibile che esista ancora tanta gente così fuori dalla realtà che stanno attraversando tante famiglie? Quando finalmente lei realizza che non lo comprerò mai, mi volta le spalle annoiata, pronta ad avventarsi su un’altra cliente. Io resto lì, umiliata ancora un po’, a passare le mani su quella stoffa meravigliosa che ha i colori di una giornata d’estate. Non so che mi prende, ma all’improvviso mi scatta dentro un desiderio di rivincita verso i vestiti di mia sorella, le partite a golf dell’avvocato, le unghie perfette della commessa, il cappotto di cachemire della cliente che ho incontrato prima. È un attimo, allungo la mano, appallottolo il foulard in fretta e lo faccio sparire in fondo al tascone del montgomery. Mi guardo intorno: nessuno mi ha visto, tutti sono intenti a fare altro. Il cuore batte all’impazzata, la testa mi gira e devo fare tre profondi respiri per calmarmi. Poi riprendo il carrello e mi avvio verso la scala mobile. Dopo un attimo mi sto già chiedendo come ho potuto fare una cosa del genere e mi vergogno moltissimo. Cosa direbbe mio marito? Cosa penserebbe Lisa, a cui cerco di insegnare tutti i giorni che bisogna accontentarsi, che c’è chi ha molto meno di noi, che solo chi è onesto va a letto con la coscienza serena? Poi penso che anch’io ho diritto ad avere qualcosa di bello, io che sgobbo tutto il giorno e non posso mai permettermi niente. Mi perdono da sola, trovo mille motivazioni per assolvermi, ma un senso di grande disagio mi coglie, e quando arrivo alla cassa combino un sacco di guai. Prima mi cade il portafoglio, poi mi si rompe la busta dei surgelati e quando sto quasi per mettermi a piangere la signora in fila dietro di me mi aiuta a ricomporre la spesa. Sto per uscire quando una guardia mi mette una mano sul braccio, mi prega di lasciare il carrello in un angolo e di seguirla. Non immagino neanche lontanamente quello che mi sta per accadere, penso solo che devono aver trovato altre cose che ho seminato alla cassa, e obbedisco docilmente a quell’invito. Sotto gli occhi incuriositi dei pochi clienti rimasti la guardia mi spinge verso una porta a vetri, oscurata da una tendina a veneziana e solo allora, quando sopra leggo la parola “Direzione”, capisco tutto. Senza giri di parole un uomo grasso, dalla testa lucida e dai grossi occhiali spessi mi dice che hanno le prove che ho sottratto “con destrezza” un oggetto e mi mostra una registrazione video, dove appaio in tutta la mia goffaggine. Mi chiede di restituire il foulard e io mi sento sprofondare la terra sotto i piedi. Lo tolgo tutto spiegazzato dalla tasca e glielo porgo senza guardare, con occhi pieni di lacrime. “Ora mi lasceranno andare” mi dico, mi intimeranno di non farmi più vedere qui e mi lasceranno andare”. Invece dopo pochi minuti, che a me paiono ore, dalla porta a vetri entra una donna poliziotto che mi chiede di seguirla. Mi sento svenire, le mani sudate, la faccia in fiamme e non riesco a muovermi dalla sedia. Sento in lontananza il direttore che parla di «donne viziate che hanno tutto, almeno avesse rubato per fame», e immagino la guardia giurata che annuisce in modo ossequioso. Solo la poliziotta mi squadra preoccupata e chiede se voglio chiamare qualcuno. Piena di gratitudine, le do il numero di mio marito. Mi lasciano da sola in uno stanzino, con un bicchiere d’acqua e tutto il mio imbarazzo. Vorrei tornare indietro, non averlo mai fatto e all’improvviso capisco che quello di cui ho bisogno non è un foulard di seta colorata, ma l’amore della mia famiglia. Capisco che non m’importa niente delle vacanze al mare, del cappotto di cachemire. Voglio solo tornare a casa mia. Dalla porta a vetri vedo arrivare Lucio trafelato, con ancora addosso la tuta, e mentre gli spiegano l’accaduto, lo vedo sbiancare e al tempo stesso rilassarsi. Deve aver pensato a una disgrazia. Ascolta il direttore e chiede di poter vedere la merce rubata. Gli mostrano il foulard e, quando si offre di pagarlo, il direttore dice che non importa. È stato restituito e per questa volta non sarà sporta denuncia. Mio marito lo fissa serio e dice che lo vuole comprare perché desidera regalarmelo. Il direttore e la guardia si guardano stupiti, la poliziotta sorride. «Certo» spiega Lucio, «non è uno dei nostri periodi migliori. Ma non vi permetto di dire che mia moglie è una ladra. Lei è una donna che si fa in quattro per la famiglia e un momento di debolezza può capitare a tutti. Vi ringrazio di aver ritirato la denuncia, ma ora vi prego di incartare questo foulard in un pacchetto regalo. Ecco, questi sono i soldi» e lo vedo allungare alcune banconote. Mi si stringe il cuore. So che aveva messo da parte un po’ di denaro per regalarsi dei cd e adesso lo deve usare per il mio foulard. «Ora» continua deciso, «se volete farmi la cortesia di restituirmi mia moglie noi possiamo anche togliere il disturbo». La porta si apre e una lama di luce investe il mio viso bagnato. «Vieni amore» dice abbracciandomi, «ce ne torniamo a casa».
In macchina non parliamo, ma prima di arrivare a casa si ferma davanti a una rosticceria. Scende e torna con un pacco che profuma di pollo arrosto. «Niente fornelli stasera, la mamma è stanca e si deve riposare». Mi sciolgo in un pianto liberatorio e abbracciandolo gli chiedo mille volte scusa. Lucio mi guarda e, accarezzandomi il viso ancora sporco di lacrime e trucco, aggiunge: «Non hai niente da farti perdonare, amore. Abbiamo tirato troppo la corda, ma vedrai che ne verremo fuori. Stasera dopo cena ci mettiamo lì e rifacciamo un po’ di conti. Sono sicuro che troveremo il modo per mandare Lisa in vacanza e ritagliarci un paio di giorni anche per noi. Non piangere più, ti prego. Appena arriviamo, voglio proprio vedere come ti sta quel meraviglioso foulard». Chiudo gli occhi e penso che tutti i colori dell’arcobaleno sono già dentro al cuore di mio marito.
Testo pubblicato su Confidenze 5/2014
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