Sono (diventata come) mia mamma

Cuore
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Quando mi sgridava o si imponeva, mi dicevo che io sarei stata una mamma diversa da lei. Promessa mantenuta, ma solo fino a un certo punto

«Questa casa non è un albergo!!!». Quando mia mamma imbufalita urlava l’odiosa frase, mi dicevo che mai e poi mai l’avrei mai ripetuta ai miei figli. Promessa che in effetti ho mantenuto, ma solo ed esclusivamente per rimanere fedele ai propositi giovanili.

Lo stesso vale per altre imposizioni che da bambina (e poi da ragazzina) non riuscivo a tollerare. Per esempio, l’obbligo di tenere la mia camera perfettamente in ordine, oppure gli orari categorici da rispettare le prime volte che uscivo alla sera. Tutte stronzate che, pensavo allora, non avevano il minimo senso.

Infatti, visto che la mia stanza era sempre un bordello, non conveniva chiudere la porta per non vederla e lasciar vivere l’intera famiglia in santa in pace? E cosa cambiava se nelle nottate mondane rientravo all’una invece che a mezzanotte?

A quell’età, però, a mandarmi del tutto fuori di testa era l’ansia della mamma per i miei rendimenti scolastici. Tant’è che per anni sono stata sia tormentata da una domanda: «Cosa gliene frega di un problema che (semmai) rimane esclusivamente mio?». Sia rincuorata da una certezza: «Io non sarò mai come lei».

Come dicevo, fino a un certo punto ho rispettato le ferree convinzioni di allora, permettendo ai miei ragazzi di dormire in camere talmente incasinate da sembrare zone terremotate. E, più tardi, di rincasare quando volevano.

Tanta libertà di gestire tempi e spazi, però, ha avuto una stretta appena sono cominciate ad arrivare pagelle da incubo. Da quel momento, infatti, ho dovuto confessare a me stessa: «Sono mia madre».

Ve ne parlo perché su Confidenze in edicola adesso c’è una storia vera dal titolo Sono mio padre.

In realtà, la vicenda di Claudio F. è un po’ più complicata di un 4 in matematica. Eppure, la morale non cambia: quando si diventa adulti (e, soprattutto, quando si hanno dei figli) è matematico rivalutare i propri genitori. E adottare gli stessi loro comportamenti che nel passato consideravamo bizzose e inutilmente irritanti paturnie.

A me è successo, appunto, nel momento in cui i ragazzi hanno iniziato a propormi una sfilza di brutti voti da firmare. In realtà non subitissimo, perché di primo acchito riuscivo ad accettarli rispolverando i calcoli ottimistici che hanno caratterizzato la mia dura vita sui banchi. Del tipo: 4+ 3 fa 7. Che diviso 2 fa 3,5. Quindi, nel prossimo compito basta che prendano 8. Infatti, nonostante la media sia 5, verrà comunque premiato il netto miglioramento con un meritato 6.

Tanta positività, però, si sgretolava con la consapevolezza che l’ennesima insufficienza non sarebbe mai stata recuperata. E che, anzi, non poteva che diventare la ganascia che avrebbe bloccato i ragazzi al liceo per una quindicina d’anni.

Allora, in preda a un panico da brividi, di colpo rivedevo la mia saggia mamma che sclerava. E mi convincevo di quanto avesse ragione quando elaborava castighi diabolici pur di spingermi a studiare.

Prendere atto della giustezza dei suoi comportamenti non ha riguardato solo la scuola. Da grande, infatti, ho capito anche che pretendere ordine e dare orari erano tecniche per tenermi lontana dalla sciatteria e insegnarmi la puntualità.

A pagare pesantemente l’illuminazione, poverini, sono stati quegli sfortunelli dei miei figli. I quali di colpo si sono beccati sfuriate per una verifica andata male. Con l’aggiunta di scenate isteriche al limite della camicia di forza per un pullover non piegato alla perfezione.

Sì, perché ormai trasformata nel clone della mamma, non gliene lasciavo passare una. E quando mi accorgevo che il mio umore passava dal miele al fiele senza il minimo preavviso, mi consolava l’idea che, una volta adulti, avrebbero capito.

A dire il vero se l’abbiano fatto ancora non lo so. Per il semplice motivo che non ho mai avuto il coraggio di chiederglielo.

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