Tra le storie più apprezzate del n. 7 di Confidenze c’è “Hasu”. La riproponiamo sul blog
Al primo incontro sfoderai tutte le parole che conoscevo in giapponese e fui catturato dalla sua energia. Quando poi mi confidò un passato doloroso e mi rivelò il suo segreto, capii che non volevo perderla
STORIA VERA DI EMILIANO T. RACCOLTA DA FRANCESCA STUCCHI
«Non sono quella che credi». Mi sbatté in faccia Hasu come una secchiata d’acqua gelida.
«Ti conosco bene» risposi smorzando il tono, con la sicurezza che mi veniva più da quello che sentivo che da quello che sapevo.
«C’è una Hasu che non conosci, che è vissuta infiniti anni fa e che ogni tanto viene ancora a cercarmi» disse inseguendo con lo sguardo il volo delle rondini.
Sentivo che il cuore palpitava spingendo quasi sullo stomaco. Mi succede spesso quando la tensione sale, ma ero comunque disposto ad ascoltarla fino in fondo.
«Mostramela» le proposi con decisione. Hasu è la donna a cui voglio più bene al mondo, è il fuoco che scalda e il vento che soffia forte alle spalle e mi spinge avanti. È la luce magica delle mie notti nere, quelle che andrebbero in fumo se non venisse lei a prendermi per mano. L’ho conosciuta durante un viaggio di lavoro a Roma, per caso, in una pausa pranzo all’Eur. L’avevo vista togliersi le scarpe e immergere i piedi in un laghetto, incurante degli sguardi della gente; chissà
se le facevano male. D’istinto l’avevo raggiunta e sfoderato tutte le parole imparate in un viaggio in Giappone, neanche una che fosse adatta all’occasione ovviamente. Lei aveva riso così tanto che aveva contagiato anche me: parlava benissimo l’italiano!
Non lo raccontai a nessuno, ma le lasciai il mio biglietto da visita e dopo qualche tempo mi richiamò. Mi ero innamorato di lei dal primo istante, anche se l’avevo ammesso solo qualche anno dopo. Ogni tanto andavo a Roma a trovarla, dicendole che ero già in zona per lavoro. In realtà volevo vederla e vederla ancora, sempre più spesso.
Anche quando ero lontano la sentivo dentro di me: catturava i miei pensieri più dolci e gioiosi e la sua risata risuonava nelle mie orecchie. Nel pensarla sorridevo da solo nel mio studio, o mentre camminavo lungo le vie del centro. Mi era addirittura balenata l’idea che averla conosciuta fosse un regalo del destino.
Era così diversa da tutte le donne incontrate prima di lei, sprigionava energia pura e quando era accanto a me mi sembrava di sentire scariche elettriche corrermi nelle vene.
Compariva silenziosa all’improvviso, diffondendo tutt’intorno un gradevole profumo che mi ricordava il giardino giapponese di Charles Wood in Alabama, aromatico e intrigante come lei. Mi veniva incontro leggera e sfuggente, e ogni volta, come fosse la prima, m’incantava. Quel giorno però i suoi occhi a mandorla, intensi e stregati, raccontavano qualcosa che non potevo immaginare.
«Tutto cominciò la sera che rientrai troppo tardi e mio padre mi cacciò di casa lanciandomi insulti come coltelli; aveva bevuto, credo. Io non indugiai, non chiesi scusa, non mi difesi, corsi fuori decisa a non rimettere più piede in quella casa. Sapevo dove andare. Avevo un paio di amici più grandi che mio padre non conosceva, loro avrebbero saputo proteggermi. Osaka è una città affollata anche di notte, non avrei dato nell’occhio. Camminai veloce verso il porto, abbagliata dalla luce dei lampioni che si intervallavano regolari. I grattacieli lungo il fiume sembravano farmi scudo lungo la strada e vedevo la mia ombra allungarsi e restringersi; un vento di libertà mi soffiava contro.
Yoshi e Hiro erano seduti su un mu- retto accanto al chiosco di takoyaki, le tradizionali polpette fritte giapponesi. Mi sorrisero formando due nuvolette di fumo prima di spegnere le sigarette; sembrava mi stessero aspettando. Avevano uno sguardo rassicurante e un’imbarcazione pronta. Mi fecero cenno col capo, e sì, mi si leggeva in faccia che volevo partire. Salii sulla barca di legno togliendomi il cappuccio della felpa e i capelli mi scesero sul viso. Mi ero sempre domandata come mai avessi i capelli mossi, da noi tutti li hanno lisci. Mi piaceva immaginare che mia madre fosse straniera. Non l’avevo mai conosciuta, mio padre non ne parlava e io non avevo chiesto. Era volata via facendo nascere me: mi aveva lasciato nell’anima un soffio di vita che custodivo da sempre, insieme a un dolore senza fine che il tempo non poteva curare, un enorme senso di colpa che, pensavo, prima o poi mi avrebbe inghiottita. I miei amici parlarono tra loro sul da farsi, li sentivo bisbigliare a prua. Incredibilmente ero tranquilla. Sbarcammo in un posto che non conoscevo e mi portarono in un vecchio panificio. La mia stanza era sul retro, piccolissima, con le pareti d’intonaco grezzo, odorava di farina e di muffa.
Così ebbe inizio la mia nuova vita. Pensarono a tutto loro, da noi le persone danno la vita per gli amici. Avevo 20 anni ed era giunto il momento di uscire dalla gabbia in cui ero rimasta rinchiusa, non sapevo come fare, ma volevo una vita mia. Iniziai a lavorare al panificio: la for- naia, una donna anziana di buon cuore, mi insegnò ogni cosa e io imparai velocemente. Con i primi soldi comprai una piastra per capelli: ora, ero come tutte le altre ragazze, con un bel caschetto liscio, gentile e perfino allegra. Finalmente!».
Hasu accennò un sorriso e mi guardò dritta negli occhi aspettando un mio commento. Ero seduto con le ginocchia contro il petto e le mani tra i capelli: cercavo di immaginarla mentre preparava l’impasto del pane in punta di piedi dietro al bancone, sollevando nuvole di farina. Era così piccola e così carina! «Continua» le
dissi inspirando profondamente il suo profumo.
Hasu mi confessò che i padroni della panetteria in cui ora lavorava a Roma non erano in realtà i suoi genitori adottivi, non era mai stata adottata. Era venuta in Italia da sola, seguendo un filo di legami e conoscenze, e aveva continuato a fare il lavoro umile e gratificante che aveva imparato in Giappone. Aveva lasciato crescere i capelli che le incorniciavano il viso con morbide onde, forse stava cominciando a fare pace col suo passato. «In realtà sono sola» concluse pronunciando quelle parole senza tristezza, splendida e consapevole come non mai.
Mi spiegò che raccontare in giro di avere una famiglia la faceva sentire come gli altri e non dava adito a domande sul suo passato. Era una trovata efficace in effetti, e anch’io le avevo creduto le volte in cui insisteva per rientrare a casa dicendomi di avere il coprifuoco a mezzanotte, o le domeniche in cui mi raccontava di essere a casa con i suoi.
Invece era rimasta da sola nel suo monolocale all’ultimo piano, affacciato sui tetti di Roma, a fare i conti con un passato che l’aveva ferita facendola sentire abbandonata.
Come avevo fatto a non capirlo? Una lacrima scivolò lungo la sua guancia; la baciai. Miliardi di stelle brillavano sopra di noi e una era caduta tra le mie braccia.
«Non sei più sola Hasu, sei con me» le dissi stordito dall’emozione.
Dal freddo che c’era avrebbe potuto nevicare, anzi, avrebbe dovuto in un momento così magico.
Ma il cielo era sereno, una notte fantastica ci stava aspettando con la luna nuova che illuminava i nostri visi, quasi volesse benedire l’unione che stava nascendo tra noi. Avevo deciso in un istante quello che volevo da molto tempo e, come sempre, era stata lei a chiarire tutto. Ci stringemmo nella sua grande sciarpa di lana bordeaux. Rideva di quanto fossimo buffi zoppicando per stare più vicini e io le accarezzai i capelli e le sussurrai «Ti amo». La strinsi a me ancora di più. «Anch’io» mi rispose annegandomi d’amore. Immensamente felice, restai accanto a lei.
Viaggio ancora da Milano a Roma per lavoro, ma presto mi trasferirò definitivamente. Roma è la nostra città e Hasu la mia famiglia. ●
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