Abbiamo bisogno di pace, non solo a Pasqua

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Le feste dovrebbero offrire l'opportunità per riflettere sull'importanza di lottare per un mondo senza guerra? No, alla pace bisogna pensare sempre

Sul numero Confidenze in edicola adesso, nell’articolo Abbiamo bisogno di una Pasqua di pace, la psicoterapeuta Maria Rita Parsi sostiene che le feste offrono un’opportunità per riflettere sull’importanza di lottare per un mondo senza guerra.

La mia idea, invece, è che tale riflessione non vada relegata ai giorni di vacanza, ma coltivata senza interruzione settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, fino ad assorbirla nel nostro profondo. L’unica strategia per raggiungere il vero obiettivo: considerare la pace uno stato naturale in cui nascere, crescere e invecchiare nella più totale armonia. Un diritto che dovrebbe essere sacrosanto per tutti.

Purtroppo, le cose non vanno affatto in questa direzione. Tant’è che l’intera umanità è costretta a vivere su un Pianeta perennemente agitato da venti di guerra che soffiano su tutti i fronti.

Il più pericoloso, ovviamente, è quello bellico creato (per fare l’ultimo esempio) da un potente che si diverte a minacciare un conflitto nucleare con la stessa leggerezza con cui un ragazzino attaccherebbe la Kamchatka durante una partita a Risiko.

A questa follia pura, però, vanno aggiunti altri tipi di contrasti, tumulti e battaglie. Di certo meno nefasti e prorompenti di una bomba o un missile lanciati sulle città. Ma lo stesso capaci di creare climi di tensione al fine di ottenere risultati che si potrebbero guadagnare con altri mezzi efficaci: intelligenza, diplomazia, dialogo, senso della misura e umanità.

Invece, anche nella vita quotidiana l’atteggiamento aggressivo ha spesso la meglio. Con gente che si scanna sul posto di lavoro. Coppie che si danno addosso come fossero Unni contro Ostrogoti. Vicini di casa che si sparano per un’incomprensione tra condomini. E perfino bambini che ai giardini fanno a botte per un pallone.

Tutto questo conferma quanto l’essere umano (uomini e donne di qualsiasi età) sia impregnato di cattiveria. Che, come recita il dizionario, è “un’innata disposizione a far del male e a recar danno al prossimo, nelle sue cose o nelle sue aspirazioni”.

Quel che è buffo (in realtà di buffo non c’è assolutamente nulla) è che nessuno è disposto ad ammettere la propria ferocia. Sia livello planetario (cito la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948) sia “locale” (basta leggere un qualsiasi regolamento scolastico), sulla carta la maggior parte della gente palesa il forte desiderio di essere giusta, equa, costruttiva e votata al bene della comunità. Con un solo e semplicissimo aggettivo, si autodichiara civile.

Una volta scritti documenti trasudanti tante belle parole, però, ecco che con la coscienza (disonestamente) a posto, riemerge il bisogno di sopraffare.

Così, per conquistare un territorio non ci si pensa due secondi a scatenare una carneficina. Per impedire a una moglie di andarsene di casa, la soluzione più facile diventa ucciderla. Mentre un bel pugno sferrato a un handicappato (ricordate il fatto riportato qualche tempo fa sui giornali?) aiuta a trovare posteggio per l’automobile.

Insomma, basta guardarsi intorno per capire quanto la pace sia un’utopia. Non a caso, anche nei cortei organizzati per manifestare in piazza le idee più giuste, tra scazzottate inutili e fuori contesto, se non il morto ci scappa sempre qualche ferito.

Cosa fare, allora? Ovviamente non ho nessuna soluzione da proporre. Quindi, mi limito a caldeggiare il consiglio della Parsi di riflettere durante la Pasqua. Ricordando, però, di continuare a farlo in ogni giorno della vita. Con la speranza che la nostra tenacia possa servire davvero alle generazioni future per crescere finalmente in un’amichevole e solidale armonia.

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