Un giorno di festa

Cuore
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Sono venuta qui non solo a salutarti, mamma, ma perché in quest’ospizio ci lavoro. Non ci siamo mai capite, tu eri troppo presa da te stessa per amarmi davvero. Ma oggi riesco a guardarti con occhi nuovi e volerti bene come sei

STORIA VERA DI GIOIA M. RACCOLTA DA IRENE ZAVAGLIA

 

La domenica la casa di cura si popola di visitatori. Questa domenica, poi, c’è il pienone. Arrivano figli, nuore, generi, nipoti, cognati… Portano fiori, scatole di cioccolatini, vestaglie nuove di pacca. Vengono per festeggiare le loro mamme messe a riposare qui; quelle madri che a casa non è possibile tenere, le cui condizioni di salute sono peggiorate fino a non poterlo permettere o, la cui presenza, semplicemente, ha smesso di incastrarsi con gli impegni e le esigenze della famiglia.

Le “mamme scadute”, le chiamo io, che qui ci lavoro; le mamme che hanno esaurito l’utilità del ruolo praticato per una vita, ma che vanno pur sempre coccolate nel giorno della loro festa. Vi sembrerò amara, lo so. Per puntarmi il dito contro sarebbe sufficiente il dato inconfutabile che anche io ho fatto ricoverare mia madre nella stessa casa di riposo dove mi guadagno da vivere.

Non sono meglio o peggio di nessuno, se mai esiste un inconcepibile parametro di misura per valutare determinate scelte. Sono una figlia che, per un processo inverso a quello di coloro che non esercitano la mia stessa professione, aveva inutilmente sperato di tenere sua madre a distanza fino alla fine dei suoi giorni. E invece, eccola qua!

«Mamma, come ti senti stamattina? Oggi è la tua festa, la festa di tutte le mamme. Ti ho preparato un bel regalo, quando arriverà Danilo potrò fartelo vedere». So che non mi risponderà, che è letteralmente su un’altra galassia. Che una demenza degenerativa prima e un inizio di Alzheimer dopo, hanno lavorato di concerto per annullarla completamente dalla donna che era. “Meglio” mi dico osservandola, mucchietto di ossa perse nel biancore del letto, mentre fissa con lo sguardo vacuo un oleandro dalla finestra aperta sul giardino.

In un altro tempo mi avrebbe spiazzato con una risposta al vetriolo sull’inutilità di queste feste moderne, ideate soltanto per il commercio di beni inutili. Oggi si limita a ignorarmi. Poi, improvvisamente, si ridesta, rivolge la sua attenzione a Matilde, la sua vicina di letto che in questo momento si gode i parenti ciarloni, e urla: «Ladra, sei una ladra! Mi hai rubato gli orecchini».

La figlia di Matilde, una donna di mezza età che avrò visto al capezzale della madre non più di tre volte in sei mesi, mi lancia un’occhiata comprensiva, come a dire: “Eh, quanta pazienza, non ci stanno proprio più con la testa”. Vorrei risponderle che, a me, di pazienza ne è servita a valanghe durante gli anni in cui mia madre è stata se stessa, ma taccio, tento di riportare la situazione alla calma. «Mamma non ti agitare, nessuno ti ha rubato niente, credimi».

Lei mi scruta dal suo mondo lontano, fa la faccia brutta, si gira offesa dall’altra parte.

È stato Massimo a convincermi a portarla nella stessa struttura dove avrei potuto seguirla personalmente. Quando ci siamo resi conto che la sua malattia non poteva essere gestita in un ambiente domestico e che mio padre era ormai troppo stanco per potersi occupare ancora della donna che, in quasi mezzo secolo di vita insieme, lo ha privato di ogni energia, mio marito mi ha indirizzato verso l’unica soluzione sensata. Anche Danilo ha detto la sua. Avevamo appena fatto l’amore nella clandestinità dell’appartamento dove da un decennio consumiamo la nostra relazione che non trova altre uscite se non quella della segretezza, quando lui ha detto: «Gioia, alla fine è sempre tua madre. Perdonala. Nella vita tutto passa».

Col cavolo, ho pensato, nella vita non passa niente. Le cose si superano, si va oltre, ma nulla è dimenticato: tutto arriva e se ne va per lasciare traccia. Crescendo mi sono anche convinta che ciascuno è il risultato della somma dell’amore che ha ricevuto diviso per il numero delle mancanze che ha dovuto subire. E, credetemi: le mancanze di una madre sono quelle che pesano di più, specie per una figlia.

La verità è che io mia madre me la ricordo sempre intorno a me, almeno fisicamente. Svolazzante nei suoi bei vestiti abbinati con gusto, felice dei suoi successi di medico, garbata con gli estranei, intransigente e materna con i suoi pazienti. C’è stata, mia madre, nella mia vita. Presente nelle domeniche a pranzo con i nonni che la adoravano, a scuola per vantarsi con i professori dei miei buoni risultati, nelle gite in campagna organizzate da papà. C’è stata, ma in sostanza non c’è stata mai; perennemente assorta nelle sue questioni, sbadata, lontana, egoisticamente concentrata su se stessa. Con gli anni mi sono abituata alle sue assenze, ho trovato una zona di confort dalla quale ho tenuto fuori le sue distrazioni, le dimenticanze, le sfuriate di quando ho cercato inutilmente di attirare la sua attenzione. «È forte tua madre, ad avercela una madre così» mi hanno ripetuto gli amici di passaggio a casa nostra. Per dire che era bella, carismatica, capace di incantare chiunque con la sua chiacchiera brillante e con il suo piglio di donna risoluta. Potevano immaginare, loro, che quel trattamento, mia madre, lo riservava esclusivamente agli altri? Mai una volta che avesse ugualmente intrattenuto me e mio padre, mai che mi si fosse seduta accanto e mi avesse spiegato come si fa a crescere senza scompensi prendendo spunto da un modello di madre quale lei è stata. Eppure, doveva saperlo: una che di mestiere fa la neurologa, certe cose le sa. Solo in un’occasione mi è venuta vicino e mi ha mormorato: «Gioia, non fare come ho fatto io, non buttare gli anni più belli per correre dietro a faccende e ad affetti che non vuoi. Pensa sempre prima a te stessa e a quello che conta di più». Ero già maggiorenne, tentavo la via dell’università per andarmene di casa, e di cosa avesse voluto dire non me ne sono curata troppo. Ho, piuttosto, deciso che la detestavo; o che, comunque, provavo un sentimento simile a un nero rancore scaturito dall’amore che non era stata in grado di darmi. Quando, dopo il mio matrimonio con Massimo, ho saputo di aspettare una bambina, mi ha assalito il panico. Non volevo una figlia femmina, per non ritrovarmi invischiata in un rapporto che avrebbe potuto somigliare a quello che ho avuto con mia madre. A dispetto dei timori, io e Roberta ci siamo riconosciute subito. La mia bambina si è legata a me di un amore sano, complice, costruttivo. Solo negli ultimi tempi, da quando la pubertà l’ha trasformata in una despota dai toni ostili, ha iniziato a rimproverarmi di non esserci, di apparire distratta, di non interessarmi a sufficienza a quel che le accade. Ho pianto molto, il senso di colpa mi ha perseguitato per giorni. Ho creduto che mia figlia si fosse accorta della mia relazione clandestina, che mi stesse punendo dell’unico amore a cui non so rinunciare pur continuando vigliaccamente a rimanere con il padre. Ho avuto il terrore che Roberta mi stesse ingiustamente associando a sua nonna, malgrado mia madre non si sia mai trovata nella mia stessa situazione, non abbia mai sofferto un conflitto su chi o come amare; perché lei non ha mai amato nessuno, a parte il suo amor proprio e la sua carriera. «Che dici, Gioia, non hai trascurato tua figlia. Da quando ci frequentiamo l’hai sempre messa al primo posto, sacrificando tutto, perfino il lavoro. Sarà il periodo, tutti i ragazzini entrano in crisi con i genitori a una certa età. E, in ogni caso, c’è la remota possibilità che tua madre tu non l’abbia conosciuta fino in fondo, chi può dirlo?» ha azzardato Danilo. L’ho piantato in asso nel bar dove stavamo facendo colazione. Proprio lui, che dice di amarmi, continua a mettere in dubbio i lunghi periodi di analisi e gli sforzi che ho dovuto compiere per colmare le lacune affettive di una madre assente.

Però mi è rimasto un tarlo. L’eco del ricordo di mia madre seduta alla sua scrivania, il viso piegato sulle braccia, l’espressione afflitta, gli occhi liquidi di pianto, il corpo scosso da profondi singulti. Ero entrata di soppiatto, si era stupita vedendomi, non rammento un’altra occasione in cui l’ho sorpresa aggrappata a un dolore. «Vieni, Gioia, vieni a dare un abbraccio alla mamma» aveva sussurrato. Ero scappata fuori dalla stanza, turbata dalla rapidità con cui, in un istante, aveva spazzato via i paletti che lei stessa mi aveva inculcato abituandomi alla compostezza e al divieto di qualsiasi smanceria. È lì che sono tornata. Qualche giorno fa mi sono presentata da mio padre e gli ho annunciato che avevo bisogno di rovistare nello studio della mamma; magari, da qualche parte, aveva appuntato qualcosa di utile sulla malattia che la affligge. Chi, meglio di lei, avrebbe potuto anticipare il suo male? Ho vagato tra i mobili impolverati, i libri ammassati sugli scaffali, le sinistre stampe anatomiche attaccate alle pareti, senza sapere bene cosa stessi cercando. Sulla massiccia scrivania giacevano il computer datato e la vecchia stampante che la mamma aveva voluto a tutti i costi, nonostante avesse continuato a scrivere a mano le cartelle mediche dei pazienti. «Non funzionano da tanto» mi ha informato papà. Ho scandagliato il cassetto sottostante e una curiosità maliziosa mi ha pervaso privandomi della parola: dentro a un sacchetto di velluto, mia madre aveva conservato decine e decine di vecchi floppy disk ormai in disuso, tutti contrassegnati da una data e riposti in ordine cronologico.

«Riesci a procurarmi uno di quei vecchi computer con lettore di floppy disk annesso?» ho chiesto al telefono a Danilo.
Da buon informatico, ci ha pensato. «Non prima di domenica, Gioia. E non è detto che, pur leggendo il dischetto, il pc riesca a decifrare i file che sono stati salvati dentro».

Ed eccomi, nella domenica della festa della mamma, seduta ai piedi del letto della mia, in compagnia di un vetusto portatile che Danilo ha fatto di tutto per rimettere in sesto e che ci ha messo un tempo indefinito per accendersi. I primi floppy disk portano la data del 1997; l’entrata laterale del pc li ingoia con uno scatto metallico, ma non ne viene fuori niente, il processore gira a vuoto. Provo delusa quelli degli anni successivi: il 2001, l’ultimo che mi rimane da giocare, si rivela il mio anno vincente. A quell’epoca, io di anni ne avevo 19 e mia madre di già 58. Pur avendomi avuta tardi, sembrava avesse stretto un patto d’amicizia con la giovinezza: si era mantenuta bellissima e vitale.

Scorgo con genuina passione i file di testo che mi si aprono sotto gli occhi. Si tratta di appunti di vita oppure no, di un diario… Leggo meglio, vado giù di cursore a fatica, le pagine stentano a caricarsi: sono lettere! Lettere che mia madre indirizza puntualmente alla stessa persona, un certo Giacomo, uno a cui scrive di continuo “amore mio” …

Mi porto la mano alla bocca, gli orari delle visite sono terminati, nella camera ci siamo solo io, la mamma e Matilde, ma è come se avessi cento occhi puntati addosso. Leggo il finale della lunga lettera del file conclusivo, non ce ne sono altri.

“Giacomo, amore mio, lascio le chiavi della nostra casa al portiere, non è possibile andare avanti. Non siamo stati capaci di chiudere il nostro amore quando dovevamo, quando eravamo in tempo per salvare noi stessi e le persone che amiamo da tanta sofferenza. Che cosa può esistere ancora per noi dopo una vita di rimandi? Gioia va via, è diventata una donna senza che me ne accorgessi. Mi odia, Giacomo, mia figlia mi odia, glielo leggo nello sguardo. Devo provare a occuparmi di lei, non mi è concesso rinviare il mio ruolo di madre e di moglie. Mi sento improvvisamente vecchia, amore, incapace di ingannare oltre chi mi è stato accanto accettando i miei infiniti turbamenti. Perdonami. Auguro solo a me stessa di dimenticare, un giorno, tutti i miei sbagli”.

Ho la vista offuscata dalla commozione. Non ti ho capita, mamma, non sono riuscita a vedere al di là delle apparenze. Senza esserne a conoscenza, tuttavia, ho seguito proprio i tuoi passi. Com’è potuto accadere? Forse che il legame tra madre e figlia, in alcuni casi, è talmente connaturato da doverlo spezzare a forza per la necessità di separarsi, così che, guarite le ferite di quell’atto, si possa entrambe provare il desiderio e la nostalgia di tornare indietro? Che crudeltà, però, mamma. Adesso che non ci sei e non ti posso avere, torni presente come mai sei stata…

Un lamento di Matilde attira la mia attenzione. Lei e la mamma riposano, aiutate da un leggero sonnifero serale. Ho terminato il mio turno da un pezzo, ma controllo ugualmente che l’altra paziente stia bene. Matilde dorme, la simpatica bocca da anziana lievemente storta, un pugno serrato, come nel gesto di nascondere un oggetto. Le allento la mano con delicatezza e scopro un orecchino che riconosco in un lampo: è lo stesso di un paio a cui mia madre era molto affezionata, con una pietra verde in mezzo e la chiusura a clip. Non ho idea di come Matilde se ne sia impossessata, la mamma deve aver infilato dei gioielli nella valigia che papà le ha preparato da portare. Prendo l’orecchino e lo riconsegno alla legittima proprietaria. Sorrido mentre glielo poso sul palmo inerme, ignaro del passaggio.

«Auguri, mamma» dico per la prima volta nella mia vita, di cuore. «Ti prometto che ritroveremo anche l’altro, che rimetteremo insieme i pezzi… E ti giuro che non rinvierò le scelte importanti, che deciderò per le cose che contano, senza perdere di vista ciò che desidero. Non voglio essere una cattiva madre, ma neppure una donna infelice».

Lei socchiude gli occhi, mi indaga. Non mi riconosce, o magari sì. Le prendo le mani, le stringo con amore tra le mie.
«Auguri per la tua festa, mamma. Perché, nel bene e nel male, una madre rimane tale per tutta la vita, non importa in quale luogo o in quale condizione, e anche se non se lo ricorda. Da oggi in poi ti festeggerò sempre, ogni giorno, ogni ora, ogni istante che ancora ci rimane da trascorrere insieme». ●

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