Quando andavo al liceo (fase della vita di gioie assolute) i miei genitori mi lasciavano fare tutto quello che volevo, a patto che non portassi a casa insufficienze. E visto che un sei risicato mi garantiva l’uso del motorino, mi liberava da ogni orario e mi pemetteva di partire per il weekend con gli amici, va da sé che nel mio curriculum scolastico non siano mai comparsi esami a settembre e, tantomeno, bocciature.
Questo non significa che fossi una studentessa modello, anzi. Ma tra titoli di libri inventati (e spacciati alle prof come ultime novità editoriali ancora poco note al pubblico), compiti in classe copiati dalla compagna di banco e nottate in bianco per studiare l’argomento dell’interrogazione programmata per il giorno successivo, alla fine l’ho sempre svangata in assoluta scioltezza.
Tutto si è aggrovigliato, invece, quando si è avvicinato il momento di affrontare la maturità. La data imminente degli orali, infatti, mi ha messo di fronte a una drammatica verità: non c’era uno straccio di materia nella quale fossi particolarmente preparata, poiché durante le ore di scuola preferivo disegnare sul diario piuttosto che ascoltare le lezioni.
Così, mentre gli altri alunni facevano pronostici sulle domande che sarebbero potute capitare loro, io mi chiedevo in che modo i miei genitori mi avrebbero fatta fuori dopo aver saputo che non ce n’era mezza alla quale sapevo rispondere.
Morale, quando ho letto l’articolo Quella maturità da incubo, su Confidenze in edicola adesso, ho risentito il brivido di terrore provato nel luglio del 1983. E vi spiego il motivo.
Come spesso succede in vista di questo importante esame, con un gruppetto di compagne ci siamo ritirate in campagna con la seria intenzione di non alzare gli occhi dai libri, se non per consumare qualche velocissimo pasto leggero.
Naturalmente, il programma non è stato minimamente rispettato. Tant’è che in quella settimana abbiamo vissuto all’insegna del cazzeggio totale. Interrotto solo da strafogate assurde di pesantissimo cibo spazzatura, ingollato con la scusa che per mantenere intatta la nostra salute mentale dovevamo per forza soddisfare la fame nervosa.
Il risultato è stato il mio rientro in città satura di calorie e pervasa dalla certezza di non avere nessuna possibilità di superare la maturità.
Ma se ritenevo la bocciatura un incidente di percorso irrilevante (che male ci sarebbe stato a farmi un altro anno di liceo dove mi divertivo tanto?), sospettavo che i miei genitori non la pensavano come me. Non per particolare intuizione, ma per la loro risposta quando li ho interpellati sulle intenzioni nel caso di un mio insuccesso: «Te le ricorderai».
Una promessa? Una minaccia? Non lo so e non lo saprò mai, visto che le interrogazioni hanno avuto del miracoloso. Come per magia, infatti, ho potuto parlare di un libro a mia scelta, vomitando parole a raffica sull’unico che avevo letto davvero. Poi, passati a Dante, sono riuscita a convincere il commissario a discutere sull’Inferno (nel corso dell’anno scolastico di Purgatorio e Paradiso non avevo neanche comprato i volumi).
La ciliegina sulla torta, però, è stato il momento della matematica. Che ha coinciso con quello del pranzo. Perciò, il prof mi ha posto un quesito sbrigativo, deciso a fiondarsi al più presto in un bar con i colleghi.
Tutto questo mi è servito a evitare la bocciatura. A capire che gli esami sono un terno al Lotto. E che al liceo nascono amicizie che durano una vita. Come quella con la compagna che mi ha sempre fatto copiare. Grazie Paola. Di tutti gli anni belli passati insieme!
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