Ora sul blog, la storia vera più apprezzata del n. 26 di Confidenze
Ero tornata a Pantelleria per dimenticare un matrimonio finito e mi sono ritrovata a giocare la più sensuale partita a carte della mia vita. Con un ex compagno di giochi, che da piccolo parlava con i polpi, e oggi è un uomo raro. Sensibile quanto attraente
STORIA VERA DI DANIELA P. RACCOLTA DA IRENE ZAVAGLIA
È un dato di fatto: poteva andare peggio. Avrebbero potuto decidere di accompagnarmi i miei, con la scusa di dare un’occhiata alla casa incustodita durante l’inverno. Oppure Livio, mio fratello, avrebbe potuto mettermi alle calcagna sua moglie, in modo da spassarsela per qualche giorno lontano dalla gelosia ossessiva di Caterina. O ancora, e sarebbe stata una tragedia di pari portata, avrei potuto indossare un paio di quei mutandoni grandi e slabbrati, quelli che chiamano della nonna, ma che pure le nonne inorridiscono a guardare, con cui continuo a castigarmi da quando Alessio mi ha lasciata. Perché è vero che ho divorziato da poco, ma avere coscienza di portare della biancheria da brivido, e non nel senso felice del termine, mentre un Adone di un metro 80 per 90 chili adeguatamente distribuiti ha appena pronunciato la parola “strip”, riferendola a quella faccenda dello spogliarsi, non è qualcosa che favorisce il superamento di un matrimonio finito. Anzi!
È che io, nei luoghi della mia infanzia, c’ero tornata con l’idea di piangere sulla mia relazione conclusa, convinta che avrei potuto crogiolarmi in una meritata solitudine. Non fosse che, pochi minuti prima dell’imbarco sul volo che da Trapani arriva diretto a Pantelleria, mi sono sentita chiamare tra la folla. E lì, ho capito che la solitudine aveva mollato il testimone al caso e che, nello specifico, il caso si ricordava perfettamente di me. «Daniela, Daniela! Sei proprio tu?».
Che fossi io, non c’erano dubbi. Ma lui… perché non compariva al primo posto nella lista dei dieci uomini attraenti, inclusi Raoul Bova e Brad Pitt, con cui vorrei da sempre fuggire via e non fare più ritorno?
«Sono Michele, il tuo vicino di casa, non ti ricordi di me? Ti ho pure chiesto l’amicizia su Facebook, non l’hai mai accettata».
Ci siamo ritrovati così, io e Michele, a 20 anni di distanza dall’ultima estate che avevamo trascorso sull’isola, prima che entrambe le nostre famiglie decidessero di trasferirsi al Nord. E c’è da dire che, di mio, non l’avrei mai riconosciuto. Michele me lo ricordavo di qualche anno più piccolo, minuto, scuro, con la faccia allampanata. Un bambino introverso, che al tramonto parlava da solo coi polpi al mare. Per questo non avevo accettato la sua amicizia sui social: perché uno che da ragazzino parla coi polpi, quanti generi di disturbi della personalità avrà sviluppato da grande? Invece, Michele ha venduto l’anima al diavolo: è diventato alto, imponente, socievole e ha maturato quella certa sensibilità che agli uomini, almeno a quelli che ho avuto la fortuna di frequentare io, è solitamente preclusa. L’ho capito quando, appena messo piede sull’isola, ha commentato: «Mi è mancata come un amore perduto, forse di più. Mi è mancato tutto di quest’isola, solo che non avevo il coraggio di ammetterlo».
«Perché sei tornato?» ho chiesto.
Ha stretto le labbra, si è sistemato con convinzione il borsone sulla spalla e mi ha allungato la mano. «Andiamo» ha detto. «Andiamo a vedere le nostre case». Poteva mettersi peggio, insomma: avrei potuto essere accerchiata dall’intera dinastia, oppure ritrovarmi da sola con un uomo poco avvenente, magari tedioso fino al punto da essere costretta a fare i bagagli e ripartire. Certo, in quella circostanza, non sarei qui a giustificare la mia assoluta incompetenza in tema di “strip poker” e a gioire segretamente d’essermi piazzata, proprio stasera, un completino intimo decisamente sexy, l’unico che ritengo non demonizzi le mie curve abbondanti. «Strip, che? Tu sei matto, io non so tenere un mazzo di carte in mano. Figuriamoci praticare simili e inopportuni giochi».
Michele ride, di pancia. Siamo insieme da qualche giorno, ci facciamo compagnia come due vecchi amici ripescati dal nulla che si divertono a punzecchiarsi rilanciando innocenti battute sul filo sottile della seduzione. «L’hai detto tu che il sesso con il tuo ex marito non era granché. Quale migliore occasione per rinfrescare i rudimenti dei preliminari?».
Avvampo. Ci siamo fatti delle confidenze. Anche abbastanza spinte.
Io gli ho raccontato della separazione da Alessio, di quella sbandata che ha preso per un’altra, decisamente più magra e più sexy di me. Lui ha ammesso che le donne non le sa tenere, che finiscono per scivolargli tra le dita come acqua di mare.
«Però tu mi piacevi» ha detto. «Sarà che eri più grande, sembravi meno cattiva. Anche se non ti avvicinavi mai». Baggianate: io, da piccola, ero cattivissima. Guardavo al prossimo con supponenza, per non porgere il fianco, perché sull’isola crescevamo forti e selvaggi, in gruppi troppo striminziti per non cercare di sovrastarci gli uni con gli altri. Era lui che mi incuteva timore, con quella miscela di solitudine e nobiltà che sprigionava un potere nascosto.
Mi avvicino adesso che siamo adulti, gli sfioro una guancia ispida di barba. Da quando siamo arrivati non si rade. La mattina giriamo in motorino, l’isola è fatta soprattutto di terra, con gli scorci improvvisi di mare incastonati tra colline di filari; su e giù per le strade sterrate, respiriamo ginepro, lentisco, rosmarino, mangiamo granita e brioscia zigzagando per i chioschi, salutiamo qualche amicizia di vecchia data che ci riconosce con quella malinconia superba di chi crede che la vita altrove sia meglio, ma che chi lascia l’isola anche se ci torna è forestiero. Al pomeriggio ci ritiriamo nelle nostre rispettive case, separate sempre da quell’unico spiazzo in cemento. Ci riposiamo nelle alcove che hanno il soffitto alto con al centro una cupola, godiamo, ciascuno per proprio conto, del retaggio di una cultura antichissima che ha adeguato le abitazioni alle esigenze di caldo, vento e umido dell’isola. Io fisso le foto mie e di Livio bambini incorniciate alle pareti, i ricami di mia madre, le canne da pesca di papà che penzolano da un gancio appeso a una trave. Cosa faccia Michele a casa sua, non lo so. Non me l’ha voluto dire. Quando anche gli ho chiesto del suo lavoro, dei suoi genitori che ora abitano nel bergamasco, ha tergiversato, ha cambiato faccia, non ha risposto.
Ci ritroviamo all’ora del tramonto, nel patio ricoperto dal cannizzo dove abbiamo sistemato i divanetti e il tavolino basso che erano custoditi nella rimessa. Centelliniamo il tempo, lo sfrondiamo di ricordi, di cene preparate a quattro mani, di risate leggere per proposte indecenti che puntualmente scardiniamo da ogni vera intenzione.
Come adesso. Michele si inginocchia ai miei piedi, mi supplica come fosse questione di vita o di morte: «Ti prego, gioca con me. Lo strip poker è divertente, ti insegno le regole. Non può succedere niente di male tra noi, siamo cresciuti insieme…». La sua voce è miele caldo. Il mare è tutto lì, di fronte a noi, che inghiotte frange rosso fuoco e restituisce lussureggianti aliti di vento. Sarebbe l’ora ideale per fare l’amore. L’ora perfetta per stringere un segreto.
«Michi, ti giuro, non so giocare a poker, non ho idea di come funzioni. Ma posso stracciarti a briscola, lì sì che sono brava!».
È subito in piedi. Il volto gli si illumina. Sorride, con quel sorriso tutto votato a sinistra che lo rende impertinente. «Bene, bene, uno strip briscola. Non l’ho mai fatto, ma ci sto». Mi afferra per la vita, mi trascina fino al tavolo, recupera il mazzo di 40 carte napoletane che giace dimenticato in un angolo. «Mettiamo subito in chiaro che per ogni briscola persa, il giocatore in svantaggio è costretto a levarsi un indumento. Diciamo che, per incominciare in una situazione di parità, dobbiamo indossare… be’ almeno cinque capi a testa».
Mi ubriaca di nozioni, già mi pento d’averlo proposto. Fa un veloce calcolo, conta la mia e la sua maglietta, i suoi pantaloncini, la mia gonna…
«Porti il reggiseno, sotto?» chiede all’improvviso.
Che domanda! Non sono tipo d’andarmene col seno al vento. Lui capisce al volo, sghignazza, mi viene accanto, con le dita che gli tremano un po’ mi sfila la catenina con il ciondolo a forma di cuore e se l’allaccia al collo. È l’unico gioiello da cui non mi separo mai: me l’ha regalata Alessio per il nostro primo anniversario. «Così siamo pari» dice piano. Poi si china a sfiorarmi una tempia con le labbra. «Devi staccarti dai ricordi, devi guarire» mormora.
La partita inizia con il seme della briscola a spade. È stato nonno Oreste a insegnarmi a giocare, nelle nostre lunghe sedute natalizie mi raccomandava di memorizzare le carte, in base alla sua esperienza di giocatore accanito non mi serviva altro.
Alla fine della quarta mano sono in vantaggio. Michele mette un finto broncio, si sfila la maglietta incrociando le braccia sulla testa e tirandola da dietro. Incollo gli occhi al suo torace scolpito, il ciondolo a cuore della mia catenina risalta sulla sua pelle abbronzata. «Ti informo che non sono pratico di tecniche di rianimazione» scherza. Recuperiamo a turno dal mazzo le successive carte da giocare, io ho già scordato a che punto siamo. «Ho fame» annuncia. «Cerco qualcosa nella dispensa. Tu non sbirciarmi le carte!».
Sparisce dentro casa, mi affretto a controllare quante probabilità ho di sfangarla alla prossima mossa: non è fortunato, gli sono capitati giusto un due di spade e un paio di carte lisce, prive di punti. Torna con le braccia cariche: ha trovato un vasetto di crema di capperi, del pane, una bottiglia di vino rosso. Improvvisa un aperitivo. Svita il vasetto, ci infila un dito, si porta alla bocca uno svolazzo di crema di capperi che ha tutta l’aria d’essere un capolavoro di gusto. «Non puoi capire cos’è…» mugugna estasiato, gli occhi socchiusi. Ripete il gesto, allunga il dito carico di crema alla mia bocca, mi fa assaggiare allo stesso modo. Qualcosa nella pancia si scioglie come lava: sarà il sapore forte dei capperi di Pantelleria a cui non sono più abituata. «Avanti, riprendiamo» dice. E anche la sua voce è incrinata da una strana emozione.
Giochiamo convinti, come fosse la partita della vita. Un paio di mani passano senza che nessuno di noi guadagni un punto. Poi lui sfodera un nove di spade e mi fa fuori una carta. Tocca a me rinunciare alla maglietta. Me la levo in fretta, con fare sbadato. Sento lo sguardo di Michele bruciarmi la pelle, mi vergogno del reggiseno interamente in pizzo che improvvisamente reputo eccessivamente provocante. «Spero che sia tu a vincere… Ti voglio con quell’affare divino addosso fino alla fine» borbotta. Mi attacco direttamente alla bottiglia di vino: è un rosso forte, pastoso, che alleggerisce i pensieri.
«Perché da piccolo parlavi da solo con i polpi?» sparo. Beve anche lui, posa le labbra dove lo ho tenute io, mi guarda enigmatico. «Tu perché hai sposato uno che non amavi, che non ti amava?». Intanto, la fortuna mi assiste: rivado a segno, esulto. L’entusiasmo mi si smorza quando Michele si disfa delle infradito. «No, che c’entrano le ciabatte? Dai prossimi punti in poi, chi vince decide cosa l’altro si debba levare» propongo d’impulso. Lui sogghigna, come se già sapesse che sarò io la prima a rimetterci per quella regola dettata in extremis. Infatti, subito dopo, quando perdo, si premura di sollevarmi tra le braccia e di farmi scivolare la gonna sui fianchi. Abbiamo i volti che si sfiorano, il respiro incatenato a un’arcana malia. Michele mi scosta una ciocca di capelli dal viso, scende con lo sguardo a contemplare le mutandine di cui mi sono tanto rallegrata e che adesso vorrei solo aver lasciato a casa. «Ti meritavi di meglio» freme al mio orecchio. «Ti meritavi un uomo che si accorgesse della tua intelligenza, della tua bellezza speciale e di questi fantastici completini che porti». Il vino, l’eccitazione e l’emozione per quelle parole mi causano un moto di commozione. «Non piangere» bisbiglia lui, «giochiamo piuttosto, ho deciso che voglio batterti».
Ci accaniamo sulle carte, per smorzare la frenesia e il timore di quello che potrebbe succedere. All’ultima mano, io ho perso i sandali e Michele i pantaloncini. Non osiamo guardare le carte. Non so pronosticare la vittoria, anche se sarebbe sufficiente sommare quel poco che entrambi ancora abbiamo addosso per capire quante briscole sono rimaste da giocare. L’aria intorno si è fatta trasparente, è l’esatto momento in cui la luce e l’oscurità si incontrano fondendosi in un manto di assoluta nitidezza. «Mio padre non c’è più. È mancato lo scorso inverno. Non ero presente quando è successo, non ci parlavamo da un po’» dice Michele senza preavviso. Trattengo un’esclamazione. Lui mi fissa accorato. «Per questo sono tornato, perché so che, anche se era lontano, il suo spirito è di nuovo qui».
Siamo quasi nudi, l’uno di fronte all’altra, più che con i corpi, con le anime che hanno ceduto ogni velo. «Vieni, ti faccio vedere una cosa». Mi tende la mano, come quando siamo arrivati sull’isola. Camminiamo fianco a fianco, scalzi, in biancheria intima, se qualcuno ci vedesse finiremmo sul bollettino locale dei pettegolezzi. Raggiungiamo il fazzoletto di mare racchiuso tra gli scogli su cui si sono sempre affacciate le nostre case. «Ecco, guarda» mi indica qualcosa di vivo che si muove nell’acqua, a ridosso della roccia. «Lo vedi? È un polpo, l’unico animale che possiede tre cuori, lo sapevi?». Osservo affascinata un piccolo polpo che fluttua tra le onde placide. Michele mi cinge le spalle, mi annusa i capelli, il suo corpo sprigiona un calore dolce. «Da piccolo volevo essere come questo polpo, volevo gambe che si muovessero leggere come i suoi tentacoli, volevo anch’io tre cuori, per amare mio padre, l’isola e la danza senza che una cosa dovesse necessariamente escludere l’altra».
Mi giro a guardarlo. Forse ho intuito. Gli uomini dell’isola sono sempre stati rigidi su quali fossero i sogni opportuni per un maschio. «Sei diventato un ballerino, è stato questo a dividerti da tuo padre» dico.
Ha il volto che è una maschera di emozioni contrastanti. Mi attira a sé, con forza. Mi bacia con trasporto, schiude le labbra sulle mie. «Devo confessarti una cosa… Hai vinto tu, ne sono quasi certo». Siamo immersi per metà in acqua, ho l’elastico dei suoi boxer che mi solletica le dita. Lui sospira, tira indietro il collo. Decido di farlo: allungo le mani e, prima di ogni altra gesto, sgancio la catenina col cuore che ha continuato a tenere sul petto, la fisso per un istante, quindi la scaglio in mare, lontano. Lui mi solleva, mi tiene agganciata ai fianchi. Mi sorride. Non sapremo mai cosa ci aveva riservato l’ultima mano di briscola, ma sappiamo con assoluta certezza che tra poco ci apparterremo. E che i cuori che adesso battono all’unisono sono tre: il mio, il suo e quello dell’isola che ci aspettava da tanto. ●
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