“Ho pensato spesso alla collera che provò mia madre la sera in cui le dissi che era un mio diritto conoscerla meglio. Sul suo volto avevo visto ira e paura. Mi sono chiesta perché mi ci sia voluto tanto tempo per capire quanto fosse spaventata, quanto tutti noi vivessimo nel terrore, e perché avessi bisogno di comprenderlo per liberare me stessa, e lei. Forse la sua paura era troppo vicina perché riuscissi a distinguerla, troppo radicata. O forse temevo di tradire entrambe, allontanandomi da quella paura quanto bastava per metterla in luce. Credo che legami simili comincino con la nascita di una persona, quando ciascuno di noi entra in scena nella medesima tragedia: la conoscenza preternaturale di essere irrimediabilmente separati – a partire da quel momento – dalla persona a noi più cara. Il primo tocco che molti di noi sentono è quello del dottore, che ci strappa da nostra madre così che possiamo diventare noi. E allora piangiamo, addolorati. E respiriamo”.
Questo romanzo mi era stato sconsigliato. “Noioso”, l’aveva definito una mia cara amica. “Sconclusionato”, il giudizio di un collega. Poche le recensioni e tutte abbastanza scontente. Un fallimento Neri Pozza, ho pensato, strano. L’eccezione che conferma la regola, in fondo. Così per anni è rimasto lì, in un angolo poco in vista di una delle mie librerie, solo e mai (ri)considerato.
Poi è successo che durante i giorni dedicati alla clausura/convalescenza da Covid, mentre vagavo senza meta da un libro a un altro in cerca di vie di fuga travestite da lettere dell’alfabeto, l’ho aperto a caso, questo libro, e gli occhi mi sono caduti sul paragrafo che ho riportato, quello che chiude il romanzo (nulla rivela della trama) della poetessa americana. L’ho trovato splendido e mi ha incuriosita. Mi sono seduta sul divano, ho letto le prime venti pagine. Poi la stanchezza da Covid o forse il rilassamento della lettrice mi hanno fatto abbandonare l’elegante posizione, mi sono sdraiata e ho letto altre trenta o quaranta pagine. Noioso? Sconclusionato? Rido. Rido amaramente.
Naomi Feinstein la conosciamo bambina. E proprio la Naomi bambina ci fornisce la preziosa chiave di lettura, splendida metafora, dell’intera trama che ci aspetta. Naomi ha nove anni e suo padre ha un infarto. Insieme alla madre attende in ospedale notizie sulla sorte del genitore. È qui che per la prima volta, sotto forma di modellino in plastica e di raffigurazione iconica leonardesca, vede un cuore. “Non c’è niente di bello nel muscolo cardiaco” le disse la dottoressa indicandole “quell’orribile oggetto rosso e viola”. Eppure quell’orribile oggetto è il motore della vita, dell’amore, dell’odio, della morte.
Vedremo Naomi crescere, conosceremo i suoi amici, la sua famiglia, la seguiremo al college, entreremo con lei nel ritrovo delle Shakes, le temutissime ragazze dell’ambita Shakespeare Society, ritroveremo i tanti personaggi delle opere del Bardo che porteranno in scena. Insieme a Noemi conosceremo la fragilità delle persone, fragilità che non esenta i genitori, i migliori amici, noi stessi. Naomi è dimenticabile, Naomi è troppo reale, sono troppo più luminosi gli altri personaggi: questo si trova scritto nelle poche recensioni italiane dedicate. Ho riso, al termine della lettura, di questa superficialità di analisi e critica. Ho riso amaramente.
Vi consiglio di leggere questo splendido libro senza perdere una parola, senza perdere una metafora, senza dimenticare che la vita è meno fluida e armoniosa della coerenza artistica ma più nutriente, più scomoda, più sorprendente.
Elizabeth Percer, Educazione di una donna, Neri Pozza
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