Spid: non ce l’ho e, comunque, non saprei come usarlo. Pec: qualche buon’anima mi ha dato una mano a creare la mia, ma non l’ho mai aperta. Banca online: sfrutto il servizio solo dall’inizio del lockdown, visto che non potevo mettere piede nell’istituto. Computer: se mi capita che s’impalli, vado nel pallone anch’io. Impostazioni dello smartphone: non ho idea di come farne tesoro.
Credo che bastino questi esempi (nonostante l’elenco potrebbe proseguire a oltranza) per spiegarvi che io e la tecnologia non andiamo per niente d’accordo. Anzi, per rincarare la dose aggiungo che la detesto con tutte le mie forze. Da sempre. Tant’è che già negli anni ’90 non sono mai riuscita a programmare il videoregistratore, né mi sono fatta affascinare dai primi device.
Ve ne parlo perché nell’editoriale su Confidenze in edicola adesso, Si faccia aiutare, il direttore racconta di essere stata trattata come un’idiota da un impiegato del Comune di Milano che la illuminava sulle mille funzioni di una tessera magnetica che le stava consegnando.
L’atteggiamento del tipo ad Angelina non è piaciuto affatto. Io, invece, l’avrei apprezzato piena di riconoscenza. Perché in campo tecnologico sono gnucca come una capra.
Lo sapevano bene le mie colleghe quando ancora lavoravamo in redazione (per noi lo smartworking non è finito): se il monitor tardava un paio di secondi ad accendersi, già alla mattina mi vedevano con i capelli appiccicati sulla fronte madida di sudore per il panico. E lo stesso succedeva se erroneamente mi capitava di schiacciare qualche tasto che faceva sparire le icone.
Tanta idiosincrasia nei confronti dell’elettronica mi spinge ancora oggi a utilizzarla solo nei casi indispensabili. Per il resto, continuo a vivere come se il mondo fosse quello in cui sono cresciuta.
Infatti, leggo esclusivamente giornali e libri cartacei. Al supermercato non pago mai alle casse automatiche. Se devo prenotare un biglietto aereo o del treno mi rivolgo alle poche agenzie di viaggio sopravvissute. E le ricette vado a ritirarle personalmente nello studio del medico curante.
Insomma, se qualcuno dovesse seguirmi in una mia giornata tipo, di certo penserebbe che sono più antica di un’ultra novantenne. Completamente rincoglionita. E, soprattutto, che nell’arco delle 24 ore spreco tempo e fatica quando potrei sbrigare ogni commissione in un lampo. Senza nemmeno uscire di casa.
In effetti, c’è del vero, lo so. Eppure, nessuno è ancora riuscito a distogliermi dalle mie abitudini paleolitiche, delle quali a volte ho nostalgia. Comprese le peggiori. Una per tutte? Le serate trascorse a tavola con persone che spulciano Instagram mi fanno rivalutare quelle (terrificanti) organizzate per guardare le diapositive.
Ma non finisce qui. Perché sono anche convinta che partire per le vacanze con il navigatore tolga il gusto dell’avventura ai viaggi. Arrivare al cinema già biglietto-muniti ci privi del gusto di osservare la gente in coda. Ordinare la pizza online non sia come andare a mangiarla fumante (e senza quel saporaccio di cartone) nel posticino sotto casa.
Ciliegina sulla torta, poi, c’è la tecnologia esagerata fra le mura domestiche. Dove è vero che l’asciugatrice libera il salotto dallo stendino, ma il forno troppo all’avanguardia è come non averlo.
Lo dico perché il mio, installato da quasi due anni, è praticamente intonso. Complicatissimo da usare, infatti, ormai è stato trasformato in una piccola dispensa. Perché l’unica volta che ho tentato di preparare una torta, è uscita una spugna intrisa di vapore pesante come un macigno. Nonostante qualche giorno prima fosse venuto uno specialista per spiegarmi il funzionamento.
Ma vi pare? Molto meglio i vecchi modelli in cui bastava selezionare i gradi. E poi annusare il profumino di dolce per capire quando sfornarlo, invece di seguire la cottura sul monitor.
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