“Quello che dava fastidio alla gente, quell’estate, era che il cielo non era mai azzurro e sembrava invece che la città fosse stata avvolta in una garza sudicia, una benda che ricacciava indietro qualunque raggio di sole tentasse di penetrarla, impediva il passaggio a qualunque cosa fosse quella che dava agli oggetti i loro colori e lasciava una vaga piattezza sospesa a mezz’aria: era questo che dava sui nervi alla gente, quell’estate, che la rese inquieta, dopo un po’. E c’era anche dell’altro: più a monte, lungo il fiume, qualcosa non andava nei raccolti: i fagiolini erano piccoli, avvizziti già sulla pianta, le carote smettevano di crescere quando non erano ancora più lunghe delle dita di un bambino, e, a quanto pareva, c’erano stati due avvistamenti di UFO nel nord dello Stato. Secondo voci ufficiose, il governo aveva anche mandato qualcuno a fare indagini. Nell’ufficio della fabbrica, dove un gruppetto di donne passava le giornate a smistare fatture, archiviare copie di documenti, attaccare francobolli sulle buste con un pugno, per qualche tempo si fece un parlare inquieto. Alcune pensavano che stesse arrivando la fine del mondo, e anche quelle che non erano così drammatiche dovevano ammettere che forse non era stata una buona idea mandare gli uomini nello spazio, e che in effetti non avevamo il diritto di andarcene a spasso lassù sulla luna. Ma il caldo non dava tregua e sembrava che i rumorosi ventilatori poggiati sui davanzali non avessero il minimo effetto, e alla fine le donne, esaurite le forze, restavano sedute con le gambe leggermente aperte alle loro grosse scrivanie di legno a rialzarsi i capelli sulla nuca. Dopo un po’, l’unica cosa che più o meno riuscivano a dire era: «Non ci si crede».”
Amy e Isabelle sono madre e figlia. Una, Isabelle, ha partorito fisicamente l’altra, Amy, ma i due ruoli faticano a trovare una definizione fissa, irrispettosi di una universale tendenza a delineare nel primo tutte le sfumature dell’amore. Parliamo della Strout, parliamo del suo primo romanzo, edito nel 1998, parliamo di una maturità narrativa innata e capace di prendere i sentimenti, i legami, e denudarli dai cliché forse comodi e consolatori ma altamente irreali e diseducativi. In una cittadina americana anonima ma idealtipica Isabelle è un essere umano del suo tempo, con tutto quello che questo può comportare, e poi è madre, madre sola, madre ma anche donna solitaria, senza una rete di legami amicali importanti: su Amy riversa paure, ansie, terrore. Latte nutrientissimo di squilibri. E Amy mangia, mangia e rigetta. Amy vive la sua adolescenza, e già solo questo è un termine che mette agitazione e fa tremare, vive la fame bulimica verso quel liquido affettivo che la nausea.
In una estate calda, troppo calda, accadranno cose che porteranno il loro rapporto simbiotico a stringersi fino quasi a soffocarle: splendida la capacità della Strout di farci arrivare addosso la sensazione asfissiante del clima terrestre e del clima emotivo. Come può Isabelle lasciare spazio alla individualità e al carattere di Amy senza cedere alla paura di spezzarsi come un vaso di cristallo? E come può Amy vivere i suoi passaggi climatici, attraversare le tempeste della confusione dei primi amori, salvarsi dalla violenza che troppo spesso si veste di rosa delicato, si avvicina con una carezza? Può crescere una madre mentre cresce una figlia? Può, un rapporto imperfetto, trovare pace?
Undici anni prima di vincere il Pulitzer con Olive Kitteridge, in un tempo in cui Lucy Barton era ancora lontanissima da venire, Elizabeth Strout ha scritto il libro perfetto sul legame tra madre e figlia.
Elizabeth Strout, Amy e Isabelle, Fazi Editore
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