L’articolo Professione baby sitter (su Confidenze in edicola adesso) sostiene che in Italia sono in aumento i corsi di formazione per chi vuole intraprendere questo lavoro. Allora mi domando: ma non potevano essercene tanti anche una trentina d’anni fa, quando ero io ad avere i bambini piccoli?
No, ai nostri tempi (miei e dei due strufolini) le alternative erano rivolgersi a istituti di altissimo livello che sfornavano tate dai costi esorbitanti. Perciò, impraticabili. Oppure, iniziare una goffa caccia che comprendeva inserzioni sui giornali (non esisteva Internet), passaparola e casualità.
Il primo “casting” l’ho affidato agli annunci. Non pubblicando il mio, ma leggendo quelli di chi si proponeva. Sulla carta, tutte persone affidabili, competenti e desiderose di prendersi cura dei miei figli come se fossero i loro. Nella realtà, ragazze convinte che la baby sitter sia una professione facile.
L’inefficacia della ricerca mi ha spinta a puntare sul passaparola. Scelta altrettanto fallimentare, visto che le signorine segnalate erano state tutte appena licenziate. E in un giro di neo-mamme bramose di un aiuto, era ovvio che se le tipe erano a spasso non dovevano essere delle Mary Poppins.
Entrambe le esperienze, comunque, mi hanno obbligata alla stessa trafila. Alla sera tornavo a casa dall’ufficio con l’idea di liberarmi della tata che non funzionava. O, ancora peggio, lei mi accoglieva con un «Devo parlarle…» che presagiva la sua intenzione di salutarci sui due piedi.
A quel punto, mi attaccavo subito al telefono. Contattavo tutte le “scorte”. Le convocavo immediatamente. Le incontravo per conoscerci. Dopodiché, confermavo l’ultima della lista, anche se in cuor mio sapevo benissimo che non avrebbe funzionato. Ma facevo di necessità virtù, poiché il giorno dopo avrei dovuto presentarmi al lavoro e non avevo altre soluzioni.
Morale, più o meno ogni mese (quando andava bene) dovevo mettere in agenda la serata dei colloqui, che spesso sembravano puntate di Scherzi a parte.
Sì, perché ho visto presentarsi soggetti davvero allucinanti.
La ragazza timidissima che non spiccicava parola neanche sotto tortura. La signora carica di terrificanti patacche stile gioielli della Corona che guardava il nostro salotto schifata. La straniera che annuiva ilare mentre le parlavo, come se mi stesse prendendo in giro. La tipa che mi faceva lezioni sul ruolo di mamma. Quella che puzzava come una carogna. Che accampava diritti da manager. Che mangiava tutto quello che trovava nel frigo. Che faceva la svenevole con mio marito. Che cacciava palle. Che si dava per malata ogni due per tre.
Un incubo. Pur frastornata da quella fauna, però, alla fine ero comunque obbligata a confermare la persona che si presentava alle h 21 (l’ultima della lista, appunto).
Quel periodo lo ricordo con orrore. Ma ha dato una risposta a una domanda che mi ero sempre fatta prima di avere i figli: come mai le mamme parlano solo di baby sitter?
Semplice. Perché diventano persone fondamentali nella loro vita. Nel male, ma anche nel bene. Che a casa nostra è arrivato, per pura casualità, nei panni di Maria.
Custode nel palazzo dove vive mia mamma, la fortuna ha voluto che la incontrassi proprio il giorno in cui aveva litigato con l’amministratore del condominio e deciso di licenziarsi. Un insperato incastro tra domanda e offerta.
Da quel momento, Maria non è stata la tata dei miei figli, ma una seconda nonna che loro hanno amato alla follia Ma non erano gli unici. Anch’io l’adoravo come una parente, nonostante mi desse ordini in continuazione. Iniziando dal cappotto, che con lei non potevo scaraventare sul divano, ma dovevo diligentemente riporre nell’armadio. Un gesto per niente spontaneo, che però compievo senza fiatare. Perché era chiaro a tutti che in casa il grande capo era lei.
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