Riproponiamo sul blog una delle storie più apprezzate del n. 37
Avevo un bel lavoro, guadagnavo bene, ma non ero felice. Un primo viaggio in Nepal mi ha fatto scoprire un mondo nuovo, più autentico, e da allora non mi sono mai fermata
STORIA VERA DI ELOISE BARBIERI RACCOLTA DA ALINA RIZZI
Ho sempre amato viaggiare, conoscere, fare esperienze diverse. Mi sono laureata in Francia e sono stata assunta quasi subito in una multinazionale svizzera. Viaggiavo molto tra Germania, Stati Uniti, Inghilterra. Stavo bene, guadagnavo come una dirigente, ero una vera donna in carriera, così come tante donne desideravano negli anni Novanta. Un’estate ho deciso di concedermi un mese di vacanza volevo uscire dall’Europa e ho prenotato un mese di trekking in Nepal. È stata un’esperienza fantastica che mi ha sorpresa. Ho scoperto un mondo lontano dal nostro, più semplice, anche più faticoso, ma vero.
Quando sono rientrata nei miei soliti ritmi di vita, non facevo altro che pensare a quell’esperienza. Volevo tornare in quella parte di mondo, entrare in contatto con le persone che l’abitavano. Non cercavo l’avventura, ma un modo per crescere, capire e migliorare me stessa. Chiesi alla mia azienda un anno sabbatico per fare il giro dell’Himalaya a piedi, in solitaria. Avevo 28 anni, non ero più una ragazzina, avevo già vissuto tanto e mi sentivo pronta per andare in cerca di me stessa. Volevo un contatto intimo con la gente del luogo. Sul posto presi guide fidate che conoscevano bene i posti e i pericoli. La gente locale parlava poco inglese e ci si esprimeva a gesti. Sono riuscita a imbastire conversazioni davvero uniche, soprattutto nei campi nomadi. Ero sola, donna, curiosa, e ho incontrato tanta disponibilità, più di quella che si potrebbe immaginare. Sentivano che il mio interesse per le loro abitudini e le loro esperienze era sincero e a loro volta erano interessati a me. Per loro era difficile capire come si vive in Occidente. Ma quanta dignità ho incontrato. Pur essendo gente molto povera, è generosa. Mi offrivano ciò che avevano: un giaciglio, coperte, il loro cibo semplice e, visto che ero ospite, ero sempre la prima a essere servita. Ma per quanta fame avessi, sapevo che dovevano nutrirsi intere famiglie, dunque assaggiavo, ringraziavo e poi lasciavo a loro il resto. Nel tempo, stand con loro, a volte tornando negli stessi accampamenti, ho iniziato a parlare un po’ i loro dialetti ed è stato affascinante condividere i loro racconti, un’intimità fatta di piccoli gesti. Soprattutto con le donne che mi portavano a vedere i loro piccoli averi e mi raccontavano le loro abitudini di vita come fossero segreti. Quando ripartivo, cercavo di lasciare loro qualche soldo per ringraziarli.
Non posso dire che sia facile viaggiare in solitaria, ma l’esperienza porta sicuramente a un cambiamento interiore, a rivalutare scelte e decisioni prese. Dopo un anno di viaggio, per correttezza, sono tornata nella multinazionale dove lavoravo, ma non ero più la stessa. Il mio pensiero era sempre rivolto là dove avevo scoperto la capacità di apprezzare le cose semplici. Ho resistito due anni e mezzo e nel 2006 sono passata a una piccola azienda valdostana dove avevo la possibilità di usare il mio tempo libero come volevo. Avevo 40 anni, era arrivato il momento di fare quello che mi piaceva davvero. Ho attraversato India e Pakistan, ho scalato tre cime da 8000 metri senza usare ossigeno, ho raccolto materiali per documentari e articoli etnografici. In Sui miei passi. Viaggio nell’altro Afghanistan ho raccontato il mese e mezzo passato sulle montagne al gelo, in mezzo alla neve, vivendo in tenda coi locali, lavorando nei campi o andando al pascolo con loro. Sempre muovendomi a piedi ovviamente. A volte aspettavo il ritorno di Malang, la guida che mi accompagnava e che parlava inglese, perché volevo fare tante domande, avere precisazioni, raccogliere interviste. Ma quando arrivava, mi accorgevo che conoscevo già tutto quello che volevo. Non erano necessari tanti discorsi: sguardi, gesti, sorrisi e tanta empatia sostituivano la lingua. Mi bastava l’essenziale.
Ho scoperto anche che nel mondo le persone sono più gentili di quello che pensiamo, ma non sono mai stata una sprovveduta. Nel primo viaggio sono stata aggredita sulla frontiera tra Cina e Pakistan, un luogo difficile e pieno di tensioni. Avevo piantato la mia tenda vicino a un lago. Di notte, all’improvviso mi ha assalita un uomo: non voleva soldi, oggetti o la mia macchina fotografica, voleva me. Sono riuscita a fuggire e ho bussato a tutte le porte finché non mi hanno aperto e medicata.
La mattina dopo mi sono rimessa in viaggio. Un’altra volta ho dormito un mese a Yaquin in Tibet in un monastero di monache. Non sono una persona religiosa ma in quel luogo la spiritualità regnava ovunque, la si respirava nell’aria. E mi è piaciuta la visione buddista della vita.
Viaggiare insegna che la vita può anche essere molto semplice, mentre noi occidentali tendiamo a complicarla in ogni modo. Ci leghiamo troppo alle cose e se dobbiamo lasciarle diventa una tragedia. Invece se non hai tanti legami non hai nemmeno molto da perdere. Dovremmo pensare più al presente che al futuro, senza la paura del cambiamento. Si può sbagliare, fallire, ma si può anche cambiare strada e ricominciare. In Occidente fallire è una disgrazia e le persone ne sono terrorizzate. Ma perché? È legittimo voler fare scelte diverse, ricrearsi, rinnovarsi.
Ora faccio la filmmaker a tempo pieno e non è una vita semplice perché c’è molta concorrenza e io non posso permettermi telecamere sofisticate, o droni: mi concentro soprattutto sull’incontro con le persone. L’ultima volta sono partita verso la Colombia dove le comunità sono molto chiuse. Ho 52 anni e i viaggi in solitaria si fanno più faticosi, ma non guardo troppo avanti: ho imparato a lasciare le porte aperte e a non temere il futuro. ●
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